Roma, 6 ago. (askanews) – E’ “verosimile” che le azioni del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e del sottosegretario alla presidenza del consiglio Alfredo Mantovano nella vicenda Almasri siano dovute alle “preoccupazioni” palesate dal direttore dell’Aise Giovanni Caravelli su “possibili ritorsioni per i cittadini e gli interessi italiani in Libia” ma “è evidente che così facendo” i componenti del governo “hanno tutti concorso nell’aiutare Almasri a sottrarsi al mandato di arresto internazionale della Corte penale internazionale e ad eludere le indagini della Corte stessa”. È quanto sostiene il Tribunale dei ministri nella richiesta inviata ieri sera alla Camera di autorizzazione a procedere per Nordio, Piantedosi e Mantovano. Per i giudici, in ogni caso, “non vi era alcun pericolo concreto e attuale” di ritorsioni come invece accaduto con l’arresto in Iran della giornalista Cecilia Sala in seguito dell’arresto in Italia di un cittadino iraniano.
Il primo a parlare di ritorsioni e a fare un parallelismo con la vicenda Sala, si legge negli atti del Tribunale dei ministri, è stato Caravelli riferendo i contenuti di una riunione convocata da Mantovano il 19 gennaio sulle “possibili implicazioni” che l’arresto di Almasri “poteva avere sulla sicurezza dei cittadini italiani e degli interessi anche economici dell’Italia in Libia”. Alla riunione erano presenti anche Piantedosi, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, il Capo della Polizia Vittorio Pisani ed il Prefetto Rizzi, Direttore Generale del DIS. In quella riunione il numero uno dell’Aise aveva spiegato che “il generale Almasri era un elemento di vertice della forza di deterrenza speciale denominata Rada Force” che “operava in quartieri nevralgici della capitale libica, compreso quello dove sono dislocate l’ambasciata italiana e la residenza dell’ambasciatore, aveva la responsabilità dell’aeroporto Mitiga di Tripoli e gestiva il carcere speciale di detenzione nei pressi dell’aeroporto”. Nella stessa riunione Caravelli aveva sottolineato “la molto proficua collaborazione con la Rada nel contrasto ad attività criminose di vario genere” tra cui il traffico di esseri umani.
Pur non avendo ricevuto notizia di specifiche minacce di attentati o atti di rappresaglia nei confronti di cittadini italiani in Libia, Caravelli aveva spiegato che “c’era molta agitazione ed indicatori di possibili ritorsioni nei confronti dei circa cinquecento cittadini italiani che in qualche maniera vivono a Tripoli o arrivano a Tripoli o in Libia e nei confronti degli interessi italiani, nello stabilimento gestito in comproprietà da ENI e dalla National Oil libica a Mellitah, vicino al confine con la Tunisia”.
“Ricordando il recente precedente di Cecilia Sala arrestata in Iran”, Caravelli “ipotizzava che la Rada Force, gestendo l’attività di polizia giudiziaria, avrebbe potuto effettuare dei ‘fermi’ di nostri cittadini all’ingresso nel paese e sul territorio libico o perquisizioni negli uffici dell’Eni”. Per Caravelli inoltre “Almasri era una figura di spicco e molto ben considerata e l’Aise non era a conoscenza che ci fosse un indagine presso la Cpi, cosa che avevano, a suo dire, scoperto dopo l’arresto”. “Circostanza quest’ultima – annotano i giudici – poco verosimile”.
“A fronte dei paventati pericoli” per l’Aise “non erano percorribili soluzioni alternative, come ad esempio il rimpatrio dei cittadini italiani in Libia, perché ciò avrebbe richiesto dei tempi lunghi e, comunque, una simile operazione avrebbe potuto essere ostacolata dalla Rada che aveva il controllo dell’aeroporto. In ogni caso, sarebbero rimasti esposti a possibili ritorsioni gli interessi stanziali in Libia”.
Per il tribunale dei ministri “nessuna delle paventate generiche ritorsioni si era estrinsecata in una minaccia concreta, dotata di una certa consistenza”: per i giudici la valutazione è stata “meramente soggettiva, riferita al solo stato d’animo di un agente e al suo personale convincimento”.
Scrivono i giudici: “Il parallelismo con il caso di Cecilia Sala, già arrestata e posta in carcere in Iran, apparentemente senza alcun motivo, come ritorsione, questa sì concreta e attuale, all’arresto del cittadino iraniano operato in Italia, su mandato di arresto degli Stati Uniti, conferma al contrario che, nel caso in esame, non vi era alcun pericolo concreto e attuale”.