Stefano Caprio
Con le discussioni alla Duma di Mosca sulle modifiche alla riforma fiscale, cercando di introdurre tasse sempre più estese e salutando definitivamente il sistema assistenziale degli ultimi decenni, la Russia si sta preparando a ridefinirsi in modo definitivo nella economia di guerra, destinata a modellare il Paese per molti anni, anche dopo il regno eterno dello zar Putin. L’ultima trovata è l’aumento della tassa sui divorzi, che permette di prendere due piccioni con una fava: afferma la prevalenza dei “valori tradizionali” difendendo la famiglia e il principio dell’indissolubilità del matrimonio, e allo stesso tempo assicura un gettito abbondante e garantito, essendo la Russia, al di là dei proclami, assai poco legata a quegli stessi valori, con un tasso di divorzi molto più alto che nella maggior parte dei Paesi del mondo (solo l’anno scorso ce ne sono stati più di 700mila). In compenso è stato proposto anche di eliminare la tassa sui matrimoni, per le stesse ragioni.
L’effetto di queste misure sulla vita dei russi è in realtà paradossale, in quanto invece di un impoverimento, sembra aprirsi una stagione di benessere e arricchimento. La presidente della Banca centrale di Russia, Elvira Nabiullina, ha rivelato che in effetti stanno molto crescendo i crediti alle persone e alle aziende, perché “la popolazione diventa sempre più ricca”. Contro ogni previsione, la Russia sta battendo ogni record di tasso di crescita del Pil, che nel 2023 è risultato del 3,6% rispetto all’1,8 che era stato pronosticato, e nei primi quattro mesi di quest’anno è salito a un’indecente 5,4%, creando un entusiasmo popolare per la “economia di mobilitazione”.
Uno dei più importanti economisti russi, il professor Igor Lipsits, che ora vive in Lituania dopo essere stato cacciato dal mondo accademico e dichiarato “agente straniero”, spiega a Radio Svoboda che “prima la Russia lasciava parte dei proventi delle esportazioni come riserve all’estero, ora non si lascia più nulla e tutto viene reinvestito all’interno del Paese”. Non c’è più bisogno di mettere qualcosa da parte per i “tempi bui”, perché i tempi bui sono già arrivati, e nessun futuro più ci aspetta. Tutto si riversa sul consumo immediato, e ovviamente la massa principale dei soldi finisce nell’industria bellica, attorno alla quale crescono i vari gruppi di un indotto senza fine. Ai soldati non servono solo le armi, ma anche il cibo, i vestiti, le medicine e tanto altro, e tutta la popolazione vive in stato di mobilitazione, anche quelli che non devono andare al fronte, almeno per il momento.
Più che economia “di guerra”, potrebbe essere definita economia “della fine dei tempi”, una sensazione di apocalisse vissuta in presa diretta. La dimensione religiosa sempre più applicata alla politica e alla società crea l’illusione che la Russia sia già nel regno dei cieli, che sia al di sopra delle turbolenze terrene dei popoli in preda all’anticristo occidentale, e che i soldati in Ucraina siano angeli scesi a difendere la purezza dei santi. Il presidente Vladimir Putin ha voluto confermare questa sensazione, recandosi in pellegrinaggio alla Lavra della Trinità di San Sergij, dove insieme al patriarca Kirill ha venerato l’icona della Santissima Trinità di Rublev, assurta ormai a simbolo della riunificazione celeste dei popoli slavi, baciando il sarcofago che contiene le spoglie di San Sergij di Radonež, patrono della Russia militante.
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