Milano, 7 ago. (askanews) – Le suo fotografie le conosciamo, hanno raccontato con l’occhio del fotoreporter di razza la nostra storia e le nostre vite. Ma forse la cosa che colpiva di più quando ci si avvicinava a Gianni Berengo Gardin era la sua vitalità, la sua energia diretta, che generava una sensazione di cortocircuito con l’età anagrafica che veniva affermata da biografie e documenti (la stessa sensazione che capita ancora con Ferdinando Scianna, altro reporter fuoriclasse e uomo che viene da terre di luce e mare). Berengo era nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, è cresciuto divenendo a suo modo veneziano – sempre l’acqua intorno – ed è morto a quasi 95 anni, lasciando la sua lezione di fotografo e la sua postura di vita: diretta e antiretorica. Guardando i suo scatti verrebbe da dire anche lucida.
“Io non sono un artista – aveva detto ad askanews in un’intervista di qualche anno fa – sia ben chiaro, assolutamente non sono un artista, sono un fotografo, molto fiero di essere un fotografo, faccio un lavoro di documentazione, sono un testimone della mia epoca e nulla di più”. Il punto, probabilmente, è la qualità di questa testimonianza, il suo avere dato immagini a un immaginario che ne aveva bisogno, il suo avere raccontato visivamente cose di noi stessi che non ricordavamo più. E averlo fatto, come un grande scrittore o cineasta, “prendendosi cura” di ciò che stava dentro le inquadrature, volendo bene ai suoi “personaggi”, lasciando che anche le immagini più “di denuncia” (anzi, probabilmente soprattutto quelle), avessero dietro l’obiettivo uno sguardo capace di non perdere la tenerezza, per citare un rivoluzionario di mestiere. E anche se per lui l’italia del XXI secolo era un Paese “andato in malora”, le sue fotografie non lo hanno mai abbandonato.
“Succede a tutti i fotografi – ci aveva detto ancora – che alcune foto diventano importanti e diventano quasi delle icone, ma non è una scelta che fa il fotografo, è il pubblico che decide quali sono queste icone”. Ci dicono che la grandezza vera è quella che non si ostenta, e il ruvido Berengo, che sembrava proprio un uomo di mare, ostentava nulla, se non la sua figura che si allontanava nella folla con una fotocamera a tracolla. Come i grandi del novecento, non serve fare i nomi perché diventa un’operazione stucchevole, ma il suo posto è quello. Però guai a dirglielo, si rischiava di essere sgridati.
Oggi lo si può salutare da lontano, come da lontano abbiamo guardato quel bacio veneziano del 1959, la sua prospettiva monumentale e quell’emozione così fragile e inafferrabile, così vera nel suo essere irripetibile. Chissà che, da qualche parte, questa non possa essere anche una definizione passabile per la fotografia stessa. Ma meglio non cedere alle certezze e lasciare che, su un mare un po’ nebbioso, si continui a cercare di capire chi siamo e dove andiamo, anche come spettatori di questo mondo e delle sue rappresentazioni culturali. (Leonardo Merlini)