Venezia, 25 lug. (askanews) – Uno spazio altro, che ci porta in una dimensione diversa dell’idea di danza, ma probabilmente dell’idea stessa di cosa possa essere il “reale”. L’installazione “On the Other Earth”, realizzata dal coreografo e direttore della Biennale Danza di Venezia Wayne McGregor insieme all’artista Jeffrey Shaw, uno dei pionieri della new media art, è un dispositivo estremamente affascinante, che unisce la tecnologia ai corpi, la riflessione sul senso del tempo a un’emozione estetica estremamente vivida. Pur all’interno di un castello interamente costruito intorno alla virtualità delle immagini, che però generano un’esperienza artistica autentica.
All’interno di una struttura cilindrica collocata nelle Sale d’armi dell’Arsenale, uno schermo cinematografico a LED stereoscopico a 360 gradi, il primo al mondo di questo tipo, genera immagini panoramiche 3D da ventisei milioni di pixel, in uno spazio di otto metri di larghezza e quattro e mezzo d’altezza. Fin qui la componente tecnica, poi ci sono l’arte e la coreografia, ci sono i ballerini virtuali che si muovono in diversi momenti, ci sono le proiezioni fantascientifiche e i salti temporali, ci sono le immersioni totali in un mondo che si mostra così vivido da poterlo toccare e, al tempo stesso, smaccatamente virtuale. In un intreccio di piani così potente da farci dubitare su cosa sia effettivamente “vero” e cosa no, noi compresi.
“Riuscire a unire i contenuti e la costruzione delle immagini in un processo che coinvolge i corpi delle persone così direttamente è una cosa magica – ha detto McGregor -. Una delle cose straordinarie degli strumenti realizzati da Jeffrey è il fatto che ti danno accesso all’immaginazione interiore”. E la parola “processo” è forse quella più importante se si vuole provare a spiegare “On the Other Earth”, perché quello che succede dentro l’installazione è una forma di arte processuale, che coinvolge direttamente lo spettatore e sposta il ragionamento dalla meraviglia tecnologica, che è indiscutibile, ma in fondo accessoria, alla dimensione della costruzione delle realtà, proprio come processo in continuo cambiamento, in costante, e mai definitiva, costruzione. Che cosa stiamo vedendo? Che cosa stiamo facendo? Sono domande a cui il lavoro di McGregor offre risposte continuamente diverse, che si muovono da una riflessione sul tempo alle suggestioni della fantascienza, che lui stesso ha citato tra le fonti d’ispirazione, fino al tema dello svelamento della costruzione che c’è dietro ogni “realtà”. È come se scivolassimo in una sorta di meta-filosofia della rappresentazione, che mostra espressamente le strutture che stanno dietro alle nostre percezioni. E la sensazione è affascinante.
Visioni del futuro, che poi torna nel passato, danze coreografate da McGregor e dall’Hong Kong Ballet sulla pista per elicotteri di un grattacielo che è il “luogo” dell’ipercapitalismo contemporaneo nella metropoli post-cinese, e quindi in qualche modo il luogo chiave del nostro presente. Nel quale i ballerini sono in fondo fantasmi, come se noi umani fossimo già passati, scomparsi, ma lasciando comunque una traccia di leggerezza e malinconia. In fondo il lavoro di McGregor sembra ambire a coreografare il Tempo stesso, con la maiuscola, ma ben sapendo che per la fisica teorica questa non è una grandezza fondamentale, ma una misura che varia, imperfetta come tutte le costruzioni più affascinanti. E, completamente immersi nell’ora di performance virtuale, si può pensare al senso del nostro tempo personale, alla magnitudo del futuro, mai raggiungibile come tale, e alla vicinanza del passato, comunque perduto. Resta un presente molteplice, che ci viene letteralmente addosso, e, in fondo, ci ricorda di essere vivi, qui e ora.
Jeffrey Shaw ha parlato del suo desiderio di creare una “macchina universale”, in questo caso identificata con la macchina da presa cinematografica, capace di creare mondi sempre diversi. “Questo – ha aggiunto l’artista – diventa uno spazio di rappresentazione che si apre a tutte le forme di esperienza culturale”. Spazio che è anche metaforico e ricorda un grande romanzo di fantascienza filosofica come “Solaris” di Stanislaw Lem: nel libro un misterioso pianeta-oceano influenzava le percezioni umane e riportava in vita le persone perdute. Nell’installazione di Wayne McGregor vediamo il processo – di nuovo la parola – che porta a vedere davanti a noi dei ballerini che sono indiscutibilmente reali, ben sapendo che stiamo guardano una proiezione in 3D. Come i visitatori della stazione di Solaris anche noi spettatori veniamo visitati di fantasmi delle rappresentazioni e, insieme a loro, facciamo esperienza di una realtà che è sempre complessa e inafferrabile. Ma, comunque, parla al nostro intimo individuale. (Leonardo Merlini)