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sabato, 14 Giugno, 2025
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Biennale Teatro, l’oscura grandezza di Romeo Castellucci

Venezia, 14 lug. (askanews) – Il teatro di Romeo Castellucci è, per definizione, totale e lascia aperte le porte a molte possibili interpretazioni, anche per via del “grande amore per la contraddizione” che lo stesso regista rivendica. Così nell’ambito della Biennale Teatro di Willem Dafoe, Castellucci ha portato nel quasi-labirinto sull’isola del Lazzaretto vecchio affacciata sul Lido l’azione drammaturgia “I mangiatori di patate”, presentato a Venezia in prima assoluta. Il titolo rimanda a un celebre dipinto di Van Gogh e sia i colori del luogo sia alcune figure che fanno la loro dolorosa comparsa nello spettacolo potrebbero far pensare al collegamento tra le due opere d’arte. Ma lo stesso Castellucci spiega che il titolo fa solo da “porta d’ingresso”. E il resto è lasciato alle sensazioni, forti, che gli spettatori, chiamati a muoversi attraverso i diversi spazi del Lazzaretto, devono decifrare da soli.

La dimensione temporale è la prima che si smarrisce, una vota entrati nello spazio dell’azione. Quello che vediamo sembra provenire contemporaneamente dal passato e dal futuro. Ci sono corpi, fin da subito, ma non sono umani, sono qualcosa che forse un tempo era stato umano, ma oggi è un ibrido, una forma forse ancora non conosciuta. Compaiono delle macchine, che sembrano mostri partoriti dalla nostra stessa coscienza tradita da secoli di orrori. Macchine che potrebbero essere aliene o potrebbero rappresentare il nostro stesso senso di colpa occidentale.

Poi, nell’oscurità, arriva una tempesta di vento e dal buio emerge la statua di un grande angelo, di spalle, ma con magnifiche ali, ali nere e spaventose come quelle che Pietro Citati attribuiva allo Stavrogin di Dostoevskij, ma forse sono solo quelle del Satana caduto di Milton. È probabilmente il momento più forte dell’azione, quello che rompe le distanze tra il teatro e noi che lo osserviamo, quello che evoca l’apocalisse e ci porta giù nel buio di una miniera, mondo infero e schiacciato dal peso della storia, illuminato solo da stelle nere che sembrano mangiare la loro stessa energia.

È in questo spazio che, contro oggi previsione, si prova a costruire una Rivelazione, quasi una Risurrezione di un corpo bianchissimo, che potremmo immaginare destinato a portare una salvezza. Ma la rivelazione, quando sembra essere sul puto di arrivare, si rivela incomprensibile, parlata da una sorta di bocca aliena che rende inutile ogni tentativo di capire. Neppure la grande statua dell’angelo, ora decapitato, può aiutarci, anzi, anch’essa viene posseduta d questa voce che non dice e fa fallire la speranza. Non sembra esserci nessuna via d’uscita, ma forse già la messa in scena soffocante si rivela una delle forme che rendono possibile almeno pensare che una strada da qualche parte esista. Nello spazio scenico e sentimentale del lavoro di Castellucci non ci è però dato sapere dove possa essere questa strada.

Costruito con un’attenzione totalizzante a ogni gesto cosi come e a ogni rumore e alla forma della luce, “I mangiatori di patate” è un enigma costruito però usando le posizioni dei corpi della pittura rinascimentale. Ogni singolo muscolo degli attori sembra appartenere del tutto alla dimensione dell’arte, e questo può rappresentare il senso di un possibile riscatto, di una ipotetica uscita da quelle tenebre. Ma, anche se così fosse e non c’è ovviamente alcune certezza, se riscatto ci sarà sarà al di fuori dello spazio della drammaturgia, sarà altrove, lontano dallo spettacolo. Che anche in questo sembra esprimere tutta la sua grandezza oscura e brillante. (Leonardo Merlini)

Immagine: La Biennale di Venezia