Immersi in altri problemi gli europei negli ultimi mesi hanno trascurato se non addirittura dimenticato la lunga telenovela andata in scena dal 2016 in poi, denominata Brexit. Ora però almeno in teoria siamo alle sue battute finali e quindi può essere utile fare un sommario punto della situazione. Abbiamo innanzi, dopo l’inevitabile rallentamento dovuto all’epidemia di una trattativa mai davvero decollata, tre nuovi e definitivi round negoziali: dal 17 al 21 agosto, poi dal 7 all’11 settembre e infine dal 28 settembre al 2 ottobre. Michel Barnier, il team leader dell’Unione Europea, da ritenersi ormai a buon diritto il massimo esperto mondiale di Brexit, non si è mai mostrato troppo ottimista sull’esito finale perché ha visto prevalere sempre, nella controparte britannica (e ancor più con la gestione Johnson dopo quella incerta di Theresa May), una visione ideologica del tema. Come se le semplificazioni (per non chiamarle per quello che davvero furono: mistificazioni) da campagna elettorale potessero davvero reggere il confronto con le questioni, serie e concrete, che i negoziatori europei hanno posto sul tavolo delle trattative. Barnier ricerca un accordo, ma non a qualsiasi costo. Sostanzialmente ciò che ha sostenuto anche il Parlamento Europeo con il documento votato in plenaria lo scorso 16 giugno a larghissima maggioranza. Ovvero un accordo compatibile con i principi dell’Unione: dalla indivisibilità delle quattro libertà all’integrità del mercato interno. E quindi concorrenza leale e parità di condizioni, ciò che viene definito, in inglese, “level playing field”, nel commercio e nell’economia. Un comune campo di gioco che per gli europei deve naturalmente estendersi ai livelli – elevati – di standard di riferimento in ogni settore: sociale, ambientale, lavorativo, di sicurezza alimentare…

In questo senso l’UE vuole un accordo strutturato in una singola cornice che racchiuda ogni aspetto delle relazioni fra i due attori istituzionali. Non si può infatti far finta di nulla, ovvero che il Regno Unito non sia stato per 47 anni membro dell’Unione e quindi integrato ad essa come nessuna altra terza parte. Ma è proprio su questo concetto che lo scontro con la visione massimalista di Johnson e del suo Governo (dominato da fieri brexiters del Partito Conservatore) si è fatto duro, perché Londra teme in questo modo di rimanere intrappolata in un accordo globale che di fatto la legherebbe troppo, nella sostanza, all’Unione. E quindi propone l’attivazione di una pluralità di accordi settoriali ognuno dei quali autonomo nell’organizzare il libero commercio. Lo scontro, ad esempio, è al calor bianco nel settore ittico, ove gli interessi dei pescatori europei rischiano di venire seriamente danneggiati da un accordo che ne precluda l’accesso al pescoso Mare del Nord. Trovare la quadra ad oggi si è rivelato impossibile.

Un altro ambito assai complicato è quello che concerne la regolazione delle dispute, a cominciare da quelle che sorgeranno nell’interpretazione del “level playing field”. Ovviamente per Bruxelles il punto di riferimento non può che essere la Corte di Giustizia di Lussemburgo. Guarda caso, uno dei massimi simboli presi ad esempio dai brexiters per motivare le loro ragioni. Un’istituzione pertanto improponibile, per loro. Questo macigno motiva il pessimismo di Barnier, anche perché trascina con sé una serie di complicazioni di non poco conto nella gestione della sicurezza, nella lotta al terrorismo, nell’amministrazione della giustizia. Terreni sui quali pare davvero assurdo ai negoziatori europei il rifiuto britannico alla discussione, considerando quello che è avvenuto in tante città europee, incluse Londra e Manchester, negli ultimi anni.

Il rischio di un “no deal” è dunque alquanto elevato. Le conseguenze sarebbero notevolmente gravi. Si pensi all’inevitabile scontro sui dazi, che condurrebbe ad una immediata guerra commerciale. Quello che non si capisce – se non proprio con il profilo estremista delle posizioni più dure che hanno preso il sopravvento nel Conservative Party e che hanno la maggioranza ai Comuni anche grazie alla scriteriata gestione politica del Labour fatta a suo tempo da Jeremy Corbin – è come possano i britannici immaginare di uscire vincenti da un confronto con altri 450 milioni di europei integrati in un mercato unico (se non puntando sul rinvigorimento su base iper-nazionalista della “special relationship” con gli Stati Uniti di Donald Trump; ma se nel prossimo gennaio alla Casa Bianca abitasse Joe Biden…?).

In questo quadro invero molto complicato (del quale è parte rilevantissima la questione irlandese e dell’abolizione dei confini delineata dagli accordi del Venerdì Santo che posero fine alla guerra civile nell’isola verde) tutti si attendono dalle capacità mediatrici di Angela Merkel – che il caso ha voluto fosse la Presidente di turno dell’UE proprio in questo semestre decisivo – una conclusione positiva del negoziato. A cominciare dagli stessi britannici. Ma i funzionari e i pochi politici che conoscono a fondo la materia mostrano assai minore fiducia, pur non disperando nella virtù del compromesso che alla lunga può prevalere nelle trattative più complicate. Un compromesso è però possibile se di fondo c’è la volontà politica di raggiungerlo. Ce l’ha, questa volontà, Boris Johnson? Questo è l’interrogativo decisivo, all’inizio della fase finale dei negoziati.

Fuori dalla retorica brexiter, egli dovrebbe considerare almeno quattro elementi:

  1. gli espliciti richiami della business community londinese al fatto che l’economia del Paese non sarebbe “resiliente” a un eventuale no deal. Concetto che con parole assai crude sarebbe stato espresso al Premier dall’associazione degli industriali;
  2. la crescita esponenziale in Scozia dei consensi a Nicola Sturgeon, premier e leader dello Scottish Independence Party: non solo per come abbia gestito con eccellenti risultati la pandemia ma anche per la sua politica prudente eppur assertiva. Senza colpi di testa alla catalana, ma con un obiettivo chiaro: stravincere le elezioni del maggio 2021 su una piattaforma indipendentista ed europeista (al Referendum il 62% degli scozzesi votò per il Remain, e ora i sondaggi per la prima volta segnalano una maggioranza per l’indipendenza dal Regno Unito) per poi imporre politicamente a Londra, quindi col consenso popolare, il Referendum; sondaggi di tutti gli istituti specialistici indicano un costante aumento del numero di britannici che ritiene esser stato un errore aver deciso di abbandonare la UE (i brexiters sarebbero comunque ancora molti, il 40%, ma non più la maggioranza);
  3. gli esiti nel medio periodo della pandemia mondiale: se essa determinerà, come si va riflettendo, un significativo cambiamento di fase nella globalizzazione (che certo non scomparirà, ma altrettanto certamente non rimarrà uguale a prima) come potrebbe dispiegarsi l’idea mai ufficialmente ammessa ma in realtà ben delineata a Downing Street di fare di Londra una nuova Singapore (“Singapore-on-Thames” come la chiamò un ministro qualche tempo fa)? Una centrale finanziaria di libero commercio, minima regolazione, agile gestione in grado di operare su tutti i mari come un tempo la Royal Navy. Peccato però che non sarebbe così facile per la Gran Bretagna muoversi nel mezzo dell’incipiente scontro fra Cina e Occidente, rimanendo per di più marginale nel proprio campo che, Johnson ne sia consapevole o meno, è e resterà quello occidentale.