Brexit, ma a quale prezzo?

Nel negoziato commerciale con Bruxelles, il quinto atto dopo l’approvazione parlamentare dell’uscita che tutti ora danno per scontata, Johnson potrebbe tenere quindi un approccio più soft

Articolo pubblicato sulle pagine della rivista Il Mulino a firma di Gianfranco Baldini

Dopo le elezioni del 12 dicembre, la mappa del Regno Unito è sempre più blu, in Inghilterra e in parte del Galles, ma gialla in Scozia. I laburisti sono trincerati nei bastioni delle maggiori aree urbane: un quarto dei 200 parlamentari rimasti al partito, e gran parte della sua dirigenza, sono stati infatti eletti a Londra. Come e ancor più che nel referendum sulla Brexit del 2016, la capitale appare un mondo diverso rispetto al resto del Paese.Certo, le mappe a colori sono il frutto della radicalità del sistema elettorale, che può avere effetti brutali. I lib-dem, l’unico partito che aumenta i propri voti in modo significativo rispetto al 2017, sono anche l’unico con la loro leader fuori dal Parlamento: Jo Swinson, sconfitta nel suo collegio scozzese per meno di 150 voti. I conservatori avanzano rispetto a due anni fa, soprattutto nei collegi più working class e Johnson trionfa al di là delle aspettative disinnescando la minaccia del Brexit Party assumendone di fatto lo slogan: “Get Brexit done”. Le prime analisi post-elettorali confermano che Johnson ha vinto sulla Brexit: tra i primi quattro partiti, nei conservatori e nei lib-dem – su versanti opposti – prevaleva questo tema, rispetto a sanità o altri, nella decisione di voto.

Gli storici parleranno di questo voto come del terzo atto della saga della Brexit, in cui gli elettori hanno detto di averne abbastanza di tre anni e mezzo di incertezze. Nel 2016 il referendum spaccò il Paese 52 a 48. Il secondo atto – le elezioni del 2017, targate May – aveva illuso qualcuno che Corbyn rappresentasse la nuova frontiera della sinistra europea. Ma quel 40% era frutto del timing stesso della saga: dando l’assenso all’avvio dell’approvazione parlamentare della Brexit, il partito aveva tenuto insieme il consenso cosmopolita della capitale con i terreni tradizionali (Galles, Scozia fino al 2015) e le roccaforti del Red Wall del Nord dell’Inghilterra, oggi travolte dall’onda blu.

Sarà interessante leggere la stampa euroscettica britannica nel 2020, quando molti elettori scopriranno che il Paese entrerà in una fase di transizione in cui continuerà a contribuire al bilancio europeo, con una voce molto limitata o assente a Bruxelles. Dalle prime dichiarazioni di Johnson sembra emergere un atteggiamento pragmatico, almeno nella partita europea. Infatti, la maggioranza ottenuta a Westminster libera Johnson dalla pressione dell’ala più radicale del suo partito. Come sottolinea uno dei maggiori esperti di temi europei, Simon Hix, Johnson potrebbe ora svincolarsi dal radicalismo dello European Research Group a favore di un pragmatismo One Nation, con tanto di rimpasto “centrista” di governo e mano tesa ai parlamentari espulsi nei mesi scorsi per non averlo sostenuto in Parlamento.

Nel negoziato commerciale con Bruxelles, il quinto atto dopo l’approvazione parlamentare dell’uscita che tutti ora danno per scontata, Johnson potrebbe tenere quindi un approccio più soft, finendo con l’allineare il Paese agli standard regolativi europei, per evitare le ripercussioni economiche più gravi e nuove trattative pluriennali.

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