L’inquietudine di Taipei
A Taipei la preoccupazione è alle stelle. Il presidente Lai Ching-te e i suoi ministri stanno osservando sempre più inquieti l’atteggiamento ostile di Donald Trump nei confronti degli alleati europei e, di converso, assai disponibile verso la Russia. Così, quando il vanitoso capo della Casa Bianca ha annunciato tramite il suo social Truth il contenuto positivo della sua telefonata a Xi Jinping e il suo prossimo viaggio in Cina fra qualche mese, un brivido è corso lungo la schiena di Lai e dei dirigenti politici dell’isola. Il timore di trovarsi in una posizione simile a quella dell’Europa è reale.
Sembra tutto assurdo, quasi impossibile.
Dal “pivot to Asia” all’incertezza strategica
Non solo Obama, con il suo “pivot to Asia” — o meglio, “to East Asia” — ma anche Trump durante il suo primo mandato: la priorità assegnata alla difesa degli interessi americani nel Pacifico era la ragione principale che giustificava la richiesta agli europei di una maggiore partecipazione finanziaria ai costi dell’Alleanza Atlantica. Il vero competitor mondiale degli Stati Uniti era ormai chiaramente il Dragone cinese, e l’avvertimento a Pechino era netto: una possibile azione ostile verso Taipei avrebbe trasformato la Cina in un nemico diretto di Washington, con conseguenze inevitabili.
Per questo, alla rielezione del tycoon newyorkese, il mondo politico taiwanese aveva persino festeggiato. Anche perché — conoscendo l’attitudine affaristica di Trump — Taipei si riteneva protetta da quello che viene definito lo “scudo al silicio”: il ruolo centrale di Taiwan, e in particolare della Tsmc, nella produzione dei semiconduttori indispensabili all’industria dell’intelligenza artificiale statunitense.
Dazi, chip e pressioni militari
E invece. Nel giro di pochi mesi, il governo taiwanese si è trovato a subire l’incremento dei dazi commerciali, la richiesta di aumentare drasticamente le spese per la difesa — fino a un impressionante 10% del PIL — e, in pieno stile trumpiano, l’ulteriore richiesta-imposizione di trasferire negli Stati Uniti una parte significativa della produzione di chip oggi realizzata da Tsmc, leader mondiale del settore.
Se a questo si aggiunge il tono prevalente dell’Amministrazione USA, guidata dall’ideologia nazionalista MAGA, e la sensazione che Trump apprezzi più gli autocrati forti che le democrazie fragili, il timore prende forma: come accaduto con Putin, il desiderio di compiacere Xi — politico di scuola comunista, abile, freddo e spietato — potrebbe indurre il presidente americano a ridurre l’impegno per la difesa di Taiwan.
L’ombra di Pechino e il fattore tempo
Esattamente come avvenuto per l’Ucraina. Una prospettiva che appare in netta contraddizione con l’obiettivo più volte dichiarato di mantenere il dominio americano nel Pacifico, di cui il Mar Cinese Meridionale è parte integrante. Al momento tutto questo resta un timore, una preoccupazione. Nessuno crede davvero che Washington possa abbandonare Taipei lasciando campo libero a Pechino. Ma non c’è più, allo stesso tempo, la certezza di un tempo. E le vicende europee hanno rafforzato questa sensazione.
Per questo Lai ha optato per un consistente aumento della spesa militare, comprensivo anche di un sofisticato nuovo sistema di difesa aerea, pensato per scoraggiare Xi dall’attuazione dei piani d’invasione dell’isola, che certamente sono già pronti. Con la consapevolezza, tuttavia, che se dovesse venir meno la protezione americana, l’obiettivo dichiarato dei cinesi continentali — il “ricongiungimento” entro il centenario della Repubblica Popolare, nel 2049 — potrebbe essere raggiunto molto prima.

