Quando si fa ingresso in un carcere per interrogare o meglio – ascoltare – una persona che vi si trova rinchiusa, si è come sopraffatti da mille emozioni, che vanno oltre il ruolo, il procedimento, l’assolvimento di un incarico di giustizia, gli interrogativi che precedono il colloquio e che dovranno essere verbalizzati nel modo più testuale e terzo possibile. “È armato, dottore?” è la prima domanda che viene posta nell’astanteria dopo il riconoscimento di rito. Per uno che si spaventava da bambino ad usare le pistole ad acqua la domanda è persino imbarazzante, anche pur comprendendone le ragioni. Se ti chiudono in una cella dove riceverai un detenuto è fondamentale entrare privi di armi, la vigilanza è strettissima ma tutto potrebbe accadere: da questo contesto di interlocuzione si cominciano a comprendere le ragioni della disperazione umana.
La prima volta colpisce la suggestione ambientale, il trovarsi in un contesto dal quale si sa che si uscirà più tardi mentre tutto, intorno, ti parla di clausura, controllo, isolamento, privazione, tempo precluso ad ogni alito di speranza. Non si contano le porte che vengono aperte con mazzi di chiavi inusitate, ma si è colpiti – inevitabilmente – dal loro rumore quando ti si chiudono alle spalle: un rumore metallico inconfondibile, che fuori di lì non ritrovi in altri contesti, le porte o i cancelli sono massicci e inespugnabili. Allora ti vengono in mente Kafka e il suo processo, la morte come un cane di Joseph K., la fortezza d’If, Alcatraz e tutte le coreografie che la letteratura e il cinema ci hanno tramandato sugli aspetti più terrificanti dell’essere rinchiusi e perseguitati senza remissione. Poi ti si para dinnanzi una cella, chiusa con sbarre di ferro di cui viene aperta la porta di ingresso per ricevere il detenuto che giunge inesorabilmente ammanettato e accompagnato da almeno due guardie carcerarie. Poi si è dentro in due, chiusi a doppia mandata.
Sono molteplici le ragioni di un interrogatorio: per quanto mi riguarda esse si riferivano a questioni di genitorialità riguardanti i figli dei detenuti. Questa fattispecie del tutto particolare mi ha sempre indotto ad assumere un atteggiamento interlocutorio: oltre il reato commesso, oltre la pena inflitta si trattava sempre di padri con cui dovevi confrontarti sulla vita dei figli rimasti a casa, le situazioni affrontate sono state molteplici tuttavia ho sempre percepito una certa commozione nei carcerati mentre parlavano, chiedevano, ponevano domande sulla vita dei minori privati della figura paterna. Credo che immaginare la vita dentro un carcere, l’isolamento dal resto del mondo, la consapevolezza della durata della pena, le restrizioni a cui i detenuti sono inevitabilmente sottoposti necessiti dell’esperienza della visita e dell’interrogatorio: capire è una componente fondamentale del giudizio, diventa un dovere per chi ascolta.
Viviamo in un’epoca in cui tutto di è incancrenito, in cui la molteplicità dei reati è esponenziale, la commissione di delitti gravissimi come il togliere la vita ad un’altra persona suscitano nell’immaginario collettivo la prevalenza dell’auspicio di una condanna esemplare. Non potrebbe essere diversamente. Personalmente sono sempre più colpito dalla diversità delle sentenze nel duplice rapporto con fatti analoghi accaduti in altri contesti e con l’entità della pena inflitta. Ci sono situazioni imbarazzanti dove le lungaggini processuali portano a sentenze tardive, alla prescrizione di reati gravissimi, altre in cui la carcerazione preventiva risulta necessaria per imbastire un processo data la gravità del reato, altre ancora in cui da un lato si indulge nell’allentamento di provvedimenti restrittivi con grande scandalo presso la pubblica opinione, specie se di fronte a certe evidenze mentre dall’altro, l’ammissione di colpa, il patteggiamento, spalancano le porte del carcere per anni e anni o per la vita intera.
Da una parte i fautori del “nessuno tocchi Caino”, dall’altra gli accaniti giustizialisti del “caccialo dentro e butta via la chiave”. Visitando alcuni ambienti carcerari si percepisce quanta parte di vita il detenuto debba lasciare fuori di lì e dimenticare. La fatiscenza di certe situazioni di sovraffollamento non può esimerci dal considerare che se il carcere è il luogo di espiazione della pena che la società ha creato per far scontare delitti anche orribili, tuttavia la nostra civiltà giuridica ci ricorda che la finalità della detenzione è di tipo “redentivo” e che alla privazione della libertà personale per una parte breve o lunga della vita non può, non deve essere associato un contesto disumano che porta all’impazzimento o al suicidio (quando scrivo se ne contano 72 da inizio 2024), una sorta di caienna infame dove si impara solo ad essere peggiori. Ci sono contesti detentivi di cui viene segnalata l’inadeguatezza, per questo mentre la Giustizia deve fare il suo corso e il reo espiare la pena inflittagli dal Tribunale, occorre pensare a questo tema come ad una priorità del Paese, acuita – inutile negarlo da una immigrazione clandestina fuori controllo. Il problema non si può risolvere con il buonismo del perdono o degli sconti di pena: in una società multietnica e ad alto tasso di criminalità e di reiterazione dei reati serve, urge, costruire istituti carcerari dove la dignità dell’essere umano venga rispettata, con condizioni di vita tollerabili che non indulgano o spingano verso scelte disperate ed estreme.
Al 18 agosto u.s. la media del sovraffollamento carcerario nazionale è del 131,06 %, con San Vittore a Milano che – a causa di strutture e celle inagibili – raggiunge la cifra record del 220,98 % (dati Il sole24 ore). Il Garante dei detenuti riferisce che “i detenuti in Italia sono ad oggi 61.465, i posti disponibili ammontano a 46.898, rispetto ad una capienza regolamentare di 51.282”. Il 78 % degli istituti di pena ha presenze di detenuti superiori al consentito, mentre in 50 istituti è ‘over’ del 150 %. Di fronte a certi eventi delittuosi e premeditati, allo sterminio di una famiglia, alla vita strappata ad adolescenti e alle violenze sulle donne, all’uccisione di madri, padri, figli, fratelli, sorelle…riesce difficile, impossibile pensare ad un perdono, ad una remissione.
Eppure la cronaca ci ha fatto conoscere misfatti crudeli e spietati di fronte a cui i familiari delle vittime non hanno invocato vendetta ma solo giustizia. Ricordiamo quanto scriveva Cesare Beccaria: “Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi” (Cesare Beccaria – “Dei delitti e delle pene” 1764). Conviviamo con il dolore, la sofferenza, la solitudine, la disperazione: ecco, ricordando i fatti di cronaca di questi ultimi anni dobbiamo fare uno sforzo di immedesimazione per capire fino a che punto l’uomo sa essere crudele. Forse il senso di impunità, la certezza di farla franca non fermano le mani assassine. Di fronte all’homo homini lupus è già difficile, forse impossibile capire perché l’irrazionale prevale sul razionale. Figuriamoci dunque quanto sia difficile perdonare.