Carlo Cattaneo e lo spirito d’impresa

Pubblichiamo la relazione svolta a Castellanza il 10 aprile dal Prof. Marco Vitale in occasione della giornata dedicata al 150° anniversario della morte di Carlo Cattaneo.

Articolo già apparso sulle pagine di Servire L’Italia a firma di Marco Vitale

Che questa Università sia intitolata a Carlo Cattaneo non è frutto del caso ma di una precisa raccomandazione del Comitato scientifico formato oltre che dal sottoscritto, che lo coordinò, da studiosi del calibro di Giorgio Fuà, Hyman Minsky, Camillo Bussolati, Gerardo Broggini, Sergio Noja e che si giovò della collaborazione esterna di Paolo Sylos Labini, Carlo Lacaita e del grande matematico del MIT di Boston e Accademico dei Lincei Gian-Carlo Rota. Insieme al poderoso progetto scientifico e didattico, infatti, il Comitato formulò la raccomandazione di intitolare l’Università a Carlo Cattaneo. Questa raccomandazione non si basava su aspetti comunicazionali, ma voleva esprimere, con coerenza, il contenuto del progetto che, a sua volta, interpretava la volontà dei promotori. Questi volevano fondare una Università, proveniente dal mondo imprenditoriale, che formasse i giovani a conoscere l’impresa, principale protagonista dello sviluppo economico, a capirne lo spirito ed i valori, a rispettarne le sue varie forme e dimensioni e a far crescere in sé non solo le tecniche manageriali ma la spinta all’imprenditorialità e all’innovazione. E, dunque, era obbligato il riferimento a Carlo Cattaneo, unico economista italiano (accanto ai contemporanei Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini) che ha capito e inserito nella riflessione economica il ruolo e lo spirito d’impresa e dei suoi principali fattori: intelligenza e volontà, che producono innovazione. Cattaneo è il nostro Schumpeter e si sarebbe certamente trovato perfettamente a suo agio nella definizione di impresa di Schumpeter: chiamiamo impresa il luogo dove si producono innovazioni e chiamiamo imprenditori coloro che le producono.

Molteplici sono i campi nei quali Cattaneo dispiegò il suo poliedrico ingegno e la sua generosa passione, ma in questa sede è importante concentrarsi su Cattaneo economista dell’impresa e dello sviluppo. Più in particolare mi riferirò ai suoi due saggi economici più sistematici e profondi: Industria e Morale (1845) e Del pensiero come principio di economia pubblica (1861). Il secondo è stato il primo scritto di Carlo Cattaneo mai tradotto in inglese (nel 2001) e distribuito nel mondo accademico americano (Lexington Books, 2003). È interessante, perché ci porta diritti al cuore del nostro tema, ricordare come si arrivò a questa traduzione ed alla prima edizione americana. Nel 1994, dopo la bufera di Tangentopoli, Milano era parecchio in ginocchio e spiritualmente depressa. Per tentare di risollevare un po’ gli spiriti vitali, come assessore all’economia del Comune, promossi una manifestazione importante: 10 Nobel per Milano. Invitammo a Milano simultaneamente 10 premi Nobel significativi di varie discipline per una serie di incontri in varie sedi con la cittadinanza. Fu una manifestazione molto ben organizzata, apprezzata dai milanesi e con effetti assai positivi sullo spirito della città. La

manifestazione fu poi replicata per altri due o tre anni consecutivi. Nella prima edizione era presente, tra i dieci Nobel, Gary S. Becker, importante e simpatico economista americano dello sviluppo, lo studioso che più di tutti aveva contribuito a rovesciare il paradigma sino ad allora dominante: il motore dello sviluppo non era il capitale (come sosteneva la teoria dominante) ma la conoscenza (knowledge). Nel corso di un dibattito pubblico io mi rivolsi a Becker con queste parole: “professore io la seguo da tempo, la stimo e condivido le sue idee; ma ci tengo che Lei sappia che, in questa città, 150 anni fa, operò un economista, che si chiamava Carlo Cattaneo, che sosteneva cose molto simili a quelle che sostiene lei, senza ricevere il premio Nobel”. Becker simpaticamente mi rispose: “well, send me a translation”. Fu così che mi misi a cercare una traduzione, e scoprii con raccapriccio che mai uno scritto di Carlo Cattaneo era stato tradotto in inglese. Allora, insieme a Carlo Lacaita, facemmo fare (al giurista e amico Avv. Ruggero Palma di Castiglione) una traduzione inglese (che riceverà, qualche anno dopo, l’apprezzamento dagli esperti di Lexington Books) e realizzammo una bella edizione bilingue con l’editore italiano Scheiwiller, nel 2001, in occasione del centenario della nascita di Carlo Cattaneo. Due anni dopo (2003), l’editore accademico americano Lexington Books, avendo visto l’edizione italiana, su segnalazione di Michael Novak, filosofo, teologo, economista americano di livello internazionale, ci propose e realizzò una altrettanto bella edizione bilingue che fu diffusa nel mondo accademico americano. Vale la pena leggere insieme l’incipit della bella prefazione con la quale Novak ha arricchito l’edizione americana:

“Max Weber’s classic paean to the Protestant ethic does not do full justice to the originality of Italian capitalism. And it is not only Weber who has failed to give Italy the accolades it deserves as the birth place of modern institutions: I mean, for example, the capitalist vitality of the cities of Northern Italy well before the advent of Calvinism; the first modern democratic constitutions (those of the Benedictines and the Dominicans); the defense of the rights of civil society, as first set forth by Albertanus of Brescia and St. Tommaso d’Aquino, etc..

In this same vein, the graceful and powerful essays on political economy by Carlo Cattaneo (1801- 1869) might long ago have taken their place as classics alongside the work of Adam Smith, David Hume, and John Stuart Mill, except for the accident of not having been (until now) translated into English.

Thanks to Marco Vitale, one of Cattaneo’s most significant essays appears here in English for the first time: “On Intelligence as a Principle of Public Economy” (1861). In lively, penetrating prose, rich in historical detail, and with a magnificent sweep across continents and cultures, Cattaneo self- consciously goes beyond Adam Smith to identify mind – that is, intelligence, and also will – as the main cause of the wealth of nations.”

Ricevetti numerosi apprezzamenti dal mondo accademico americano per questa realizzazione.

La verità è che Carlo Cattaneo era già più avanti anche di Becker e della scuola contemporanea della economia della conoscenza (knowledge economy). Infatti, il motore dello sviluppo non era, per lui, né il capitale, né il lavoro ma neppure la conoscenza. La conoscenza viene dopo come frutto dell’intelligenza e della volontà:

“Gli atti d’intelligenza che apersero ai popoli le fonti di ricchezza più vaste e universali, hanno dovuto necessariamente antecedere ad ogni produzione diretta, ad ogni ammasso scientifico. Non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera e imprime ad essa per la prima volta il carattere di ricchezza, il valore che hanno le cose non si rivela da sé, è il senno dell’uomo che le discopre… Ecco, nell’infanzia delle genti atteggiarsi le quattro forze produttive: intelligenza, natura, lavoro e capitale, in una serie che sempre e ad ogni volta viene aperta dall’intelligenza… Interamente nelle regioni del pensiero si preparano quindi i destini che danno e tolgono all’improvviso ai popoli e alle classi il possesso della terra e degli altri beni… Chiuso il circolo delle idee resta chiuso il circolo delle ricchezze… L’uomo interiore possiede due forze: l’intelligenza e la volontà. La volontà è principio di ricchezza quanto l’intelligenza”.

Questa serrata progressione di pensiero testimonia la straordinaria modernità di Cattaneo come pensatore economico. Egli sostiene le sue conclusioni con una ricca serie di esempi storici e geografici che testimoniano le forti radici e la straordinaria modernità del suo pensiero. E noi potremmo arricchire i suoi esempi con molti altri tratti dal nostro tempo. Pensiamo al Venezuela che riceve dalla natura il dono di una grande ricchezza petrolifera che sperpera nel modo che abbiamo sotto gli occhi, infliggendo al suo popolo miserie e sofferenze inaudite. Pensiamo all’Italia che all’inizio degli anni ‘60 grazie all’Olivetti, ad alcuni centri della marina militare, all’Università di Pisa e al Politecnico di Milano, è all’avanguardia nell’elettronica, con Ippolito è all’avanguardia nel nucleare, con Mattei sta conquistando una relativa autonomia nella politica energetica dall’oppressivo monopolio delle sette sorelle petrolifere e nel giro di pochi anni perde tutto e viene implacabilmente relegata in Cat. B, dalla quale, pur tra alti e bassi, non si è più realmente ripresa: chiuso il circolo delle idee resta chiuso il circolo delle ricchezze.

Ma forse l’esempio più convincente della correttezza del pensiero di Cattaneo resta quella della Scozia del ‘700. Arthur Herman, l’autore di “How the Scots invented the Modern World (New York, Three Rivers Press 2011) scrive: “Nel Settecento la Scozia era la più povera nazione indipendente d’Europa. Eppure questo paese culturalmente arretrato riuscì a diventare la ruota motrice del progresso europeo”. Nessuno all’inizio del settecento poteva minimamente prevedere che la Scozia del ‘700 avrebbe dato i natali ad Adam Smith (fondatore della teoria economica moderna), a Adam Ferguson (fondatore della sociologia) e James Hutton (fondatore della geologia), a scrittori vigorosi come Walter Scott, a filosofi come David Hume, a fisici come James Maxwell, a inventori come Graham Bell (insieme a Meucci, inventore del telefono) e James Watt (inventore della macchina a vapore) a Matthew Boulton (un imprenditore che con una serie di innovazioni rese più efficiente e diffondibile la macchina di Watt), a James Young (inventore del metodo di raffinazione del petrolio) e altri.

L’unica cosa certa per gli storici che hanno studialo lo straordinario fenomeno è che una grande influenza fu esercitata sulla Scozia da un importante sacerdote-politico che, sostenendo che tutti i cittadini dovevano poter leggere la Bibbia, riuscì ad imporre un intenso programma di alfabetizzazione che portò la Scozia a raggiungere a metà del ‘700 un livello di alfabetizzazione diffusa enormemente superiore a quella dell’Inghilterra.

Mi sono soffermato su questa straordinaria vicenda per sottolineare due fatti. Il primo è la difficoltà di fare previsioni a lungo termine in materia economico-sociale perché c’è sempre, fortunatamente, un cigno nero o bianco che sia che, nel male o nel bene, spariglia le carte e rende la vita delle persone e dei popoli imprevedibile. Non per niente Goethe per indicare il flusso della storia parla “dell’arcano laboratorio di Dio”. Il secondo è l’importanza dell’istruzione e dell’intelligenza come fattori primi dello sviluppo, importanza che non è certo una scoperta del nostro tempo. Tutta la scuola italiana del pensiero dello sviluppo e dell’economia civile (dall’illuminismo napoletano a quello lombardo) è pervasa da questo tema sino al vertice rappresentato, a mio giudizio, dal saggio di Carlo Cattaneo sul quale stiamo riflettendo, che è uno dei saggi più potenti mai scritti sulle rare radici dello sviluppo.

E ciò mi porta alla seconda riflessione che voglio fare. C’è chi pensa che lo sviluppo economico inizi solo con l’industrializzazione. E allora Firenze, Siena, Venezia, Genova, i grandi commerci, i grandi imprenditori come il pratese Francesco Datini che, fattosi dal nulla, lasciò ad un istituto di beneficenza un’eredità di 600.000 fiorini d’oro pari a Kg. 247 di oro fino a 18 carati e gli esemplari istituti di assistenza sociale come lo Spedale degli Innocenti di Firenze progettato dal Brunelleschi e finanziato sempre dal Datini, tutto questo e tanto altro da dove viene, cosa rappresenta? Naturalmente gli storici veri la pensano in modo diverso, come Braudel, che di Genova scrisse: “se mai esiste una città diabolicamente capitalista prima dell’età capitalista europea e mondiale è proprio Genova, opulenta e sordida nello stesso tempo” e ricorda che le galere genovesi istituirono un servizio regolare di linea tra Genova e Bruges nel 1295 e ci parla dei grandi scambi tra Genova e Istanbul, la New York del XVI secolo, con 700.000 abitanti (contro i 300.000 di Parigi, i 200.000 di Napoli, i 100.000 di Londra).

Dobbiamo rifondare molte cose. E nel fare ciò dobbiamo ritrovare, anche nella nostra storia, le radici vere dell’impresa del terzo millennio. Dobbiamo liberarci dai pestilenziali modelli del capitalismo finanziario e selvaggio di matrice anglosassone, culturalmente e moralmente devastanti, che abbiamo rifilato a molte generazioni per quasi cinquant’anni. E riprendere, invece, i modelli dell’impresa toscana, lombarda, genovese, veneziana, quando l’imprenditore italiano era ai vertici mondiali ed insieme creava modelli di città, di benessere serio, di convivenza civile. Andiamo a Siena a riflettere come i grandi lanaioli e mercanti senesi abbiano, al contempo, creato grande ricchezza ed una grande cattedrale, un grande palazzo del popolo, una grande banca, che proprio nei giorni nostri hanno tentato di distruggere, un grande ospedale, Santa Maria della Scala, organizzazione esemplare per tutta Europa. Siena è la testimonianza viva che non esiste conflitto tra buona economia imprenditoriale e umanesimo civile, in uno sforzo continuo per tenere insieme economia, finanza, buon governo, arti, spiritualità, istituzioni sociali. Andiamo a riflettere sugli affreschi di natura civile sul Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo del Popolo e sugli affreschi di assistenza sociale del grande ospedale (grande impresa) di Santa Maria della Scala. Il progetto “Welfare” non nasce nell’‘800 o nel ‘900 ma nasce lì, quando istituzioni produttive (imprese), opere di assistenza sociale, cultura, amministrazioni pubbliche, si saldano in un patto di buongoverno che dona frutti meravigliosi, dei quali ancora oggi beneficiamo. La responsabilità prima degli imprenditori e delle scuole d’impresa è, oggi, quella di collaborare all’uscita da una concezione economica fine a sé stessa, che si è cacciata in un vicolo cieco senza speranza, per ricostruire un nuovo modello di sviluppo economico, sociale culturale, riaprendo ed aggiornando tanti esempi, stimoli, insegnamenti dei quali la nostra storia è così ricca, ricollegandosi anche al Rinascimento, in un approccio colto ed eclettico del quale Cattaneo è uno dei grandi testimoni.

Dunque intelligenza e volontà, prima dei beni materiali, del capitale, del lavoro ma anche prima della conoscenza. Trovo una rappresentazione grafica della progressione cattaneana in un grafico del Ing. Perotto (allora capo della ricerca Olivetti e progettista del Modello 101, il primo computer da tavolo del mondo) che riferendosi alla società contemporanea evidenzia tre stadi di sviluppo: società dell’informazione, società della conoscenza, società dell’intelligenza. Il passaggio dalla società della conoscenza alla società dell’intelligenza è caratterizzato dall’uso che si fa della conoscenza. Intelligenza e volontà, dunque, come fattori principali di sviluppo. E cosa sono questi fattori se non l’essenza dell’impresa e dello spirito d’impresa, anche se Cattaneo non usa questa terminologia, ma parla di industria? Ma la usa questa terminologia un filosofo e teologo domenicano contemporaneo (che ho ragione di ritenere non conosca Cattaneo) che, in un saggio sulla Spiritualità d’Impresa, scrive:

“Le due facoltà dello spirito: intelligenza e volontà. Nella tradizione filosofica lo spirito ha due facoltà: l’intelligenza e la volontà… Intelligenza e volontà, per quanto siano facoltà ben distinte dello spirito umano, sono strettamente complementari. L’intelligenza conosce la singola cosa, la mette in relazione con le mie conoscenze precedenti e, soprattutto, con il mio mondo di idee. La volontà apprezza, valuta la cosa conosciuta come cattiva o come buona, se la apprezza come buona allora inizia a desiderarla e amarla. A questo punto, perché il desiderio e l’amore non siano vani e platonici, l’intelligenza comanda il raggiungimento di quel bene apprezzato, cioè la sua realizzazione. E infine, la volontà si mette all’opera”. (Padre Giorgio Carbone, Spiritualità nell’impresa. Piccola Biblioteca Inaz, 2011).

Ed è proprio qui, in questo incontro tra intelligenza e volontà, che pone le sue redini lo spirito d’impresa.

Queste coincidenze attraverso tempi e discipline diverse sono significative ma non certo sorprendenti. Anzi sono la conferma che il metodo cattaneano della interdisciplinità è l’unico metodo che permette di capire qualcosa di ciò che avviene nella società, proprio perché la vita e la società sono, per loro natura, interdisciplinari.

Chi ha meditato profondamente su “Del pensiero come principio d’economia pubblica” di Cattaneo, non può aver dubbi sul fatto che egli si ponga, ancora oggi, molto più avanti di tanti che rivendicano infondate primogeniture sulla scoperta del valore della conoscenza come fattore di sviluppo, e molto più avanti anche del famoso Punto Quattro di Truman (1949). Quando egli parla di “intelligenza e volontà” come fattori centrali dello sviluppo, non si riferisce, infatti, alla formazione ed all’istruzione (attività alle quali peraltro credeva fortemente tanto da dedicare alle stesse il meglio di sé); non si riferisce neanche agli “ammassi scientifici” del Gioia cioè alla conoscenza accumulata. Egli si riferisce a qualcosa che viene prima, a qualcosa che inizia il processo di emancipazione e di accumulo della conoscenza. All’intelligenza in sé, all’intelligenza non ancora istruita, unita alla volontà di trovare la propria strada, di essere artefici del proprio sviluppo, di operare sulle proprie risorse reali, ad un’attitudine morale e politica. Ecco perché la sua visione è strettamente legata al tema della libertà e soprattutto della libertà di intraprendere e della volontà collettiva e individuale di sviluppo, cioè di quello che oggi chiamiamo lo spirito d’impresa.

La riprova della fondatezza dell’analisi del Cattaneo e l’avanzamento e l’approfondimento delle sue idee sullo sviluppo, non li troviamo nei manuali di economia che, per la maggior parte, ripetono formule stanche di una dottrina morente, ma nella storia viva degli anni ‘80 e ‘90, quando, rottisi gli schemi collettivisti ed oppressivi, si liberano energie umane e la libertà d’impresa occupa sfere crescenti nel mondo, e l’intelligenza e la volontà di tanti uomini, sotto ogni latitudine e longitudine, avviano allo sviluppo zone immense del mondo, che negli anni ‘60 e ‘70 venivano da tutti gli esperti condannate ad un eterno sottosviluppo “per mancanza di capitale”. Le visioni di Cattaneo le troveremo nelle grandi inchieste di Guy Sorman (“La nouvelle richesse des nations”, Fayard 1987; “Le capital, suite et fins”, Fayard 1994), o in certi libri di storia e teoria d’impresa (come quelli di Drucker e di Gilder). E, con sorpresa di molti, le ritroveremo in alcune Encicliche della Dottrina Sociale della Chiesa. In parte già nella parte II della Mater et Magistra (“Anzitutto va affermato che il mondo economico è creazione dell’iniziativa personale”), ma soprattutto nella “Centesimus Annus”.

Parecchi grandi temi di Cattaneo si sviluppano come derivati della sua tesi di fondo, come: la visione dinamica dell’economia, il ruolo fondamentale della libertà e della concorrenza, l’unitarietà dell’economia, la globalizzazione dell’economia, i rapporti tra economia, industria e ambiente. Sono temi che tratto nella mia postfazione al testo di “Intelligence as a principle of public economy”, ai quali rimando per non appesantire troppo la presente relazione. Solo un altro punto centrale devo qui citare avviandomi alla conclusione: il rapporto tra Industria e Morale.

Il positivismo di Cattaneo e degli studiosi dei quali è erede e tutt’altro che cieco, tutt’altro che ingenuo, tutt’altro che vittima dell’illusione “sulle magnifiche sorti e progressive”. È un positivismo realista, di chi conosce a fondo gli alti e bassi delle vicende umane, di chi conosce la lentezza, la gradualità, la fatica dell’incivilimento, di chi ha sofferto disillusioni generali e personali, di chi sa che solo i processi di sviluppo che nascono dal basso, dalla maturazione collettiva, dalla valorizzazione dei propri talenti, dalla dura fatica intellettuale, materiale e morale, hanno possibilità di consolidamento, di chi, come Cattaneo, ha letto ed interiorizzato il Vico. Ma le difficoltà, le sconfitte, non uccidono la speranza, che non è mai ottuso ottimismo ma è impegno morale. Dai fatti ai pensieri e dai pensieri ai fatti. Per migliorarli, per contribuire, senza che le cadute e le contraddizioni spengano la speranza e l’impegno. Questa è la morale dell’industria e del lavoro, come Cattaneo la illustra in una sua altra splendida pagina, intitolata, appunto: “Industria e morale” (Relazione tenuta come relatore alla Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri, Milano, 1845, in “Scritti economici”, ed. Le Monnier, 1956, Volume III): “Dacché il destino dell’uomo fu quello di vivere coi sudori della fronte, ogni regione civile si distingue dalle selvagge in questo, ch’ella è un immenso deposito di fatiche… Quella terra (Nota: si riferiva al territorio fra Milano, Lodi, Pavia) adunque, per nove decimi, non è opera della natura; è opera delle nostre mani; è una patria artificiale… Sì, un popolo deve edificare i suoi campi, come le sue città… Quindi è necessità, necessità morale, che ogni generazione inalzi i suoi templi e i suoi archi e modelli le sue sculture, e apra nuove vie per alpi e per lagune, e inarchi nuovi ponti non solo ormai sui fiumi, ma sui laghi, ma sui mari e non solo sopra lo specchio delle acque, ma fin per disotto ai tetri loro gorghi”.

Dunque l’innovazione come elemento costitutivo dell’industria e dell’impresa, l’innovazione non come un accidente o una cosa eventuale ma come essenza e dovere dell’impresa. Dovere morale.

È qui che intelligenza e volontà, fattori costitutivi ed essenziali dello spirito d’impresa, si saldano con l’innovazione fattore essenziale dello sviluppo o, come dicevano meglio gli studiosi della scuola italiana, dell’incivilimento.

Possiamo dunque concludere con una riflessione sulle parole con le quali Cattaneo chiude il suo poderoso saggio:

“Raccogliendo, diremo che ogni nuovo trattato d’economia pubblica, dovrebbe formalmente classificare tra le fonti della ricchezza delle nazioni l’intelligenza e la volontà: l’intelligenza che scopre i beni, che inventa i metodi e gli strumenti, che guida le nazioni sulle vie della cultura e del progresso; la volontà che determina l’azione e affronta gli ostacoli”.

Se i legislatori non possono con un colpo di verga magica creare in ogni paese i beni che la natura ha troppo inegualmente sparsi sulla terra, se non possono moltiplicare a piacimento il numero delle braccia e la potenza del lavoro, se non possono sempre cattivarsi il favore degli arbitri del capitale, certamente possono farsi promotori e vindici della libera intelligenza e della libera volontà.

Aggiunga ogni scrittore a queste nostre una nuova pagina, s’inoltri d’un passo nell’analisi da noi tentata; e una meno imperfetta sintesi della pubblica economia potrà risponder meglio al voto delle nazioni”.

Il suo auspicio, la sua raccomandazione non è stata raccolta. Si sono volute percorrere altre vie, quelle del collettivismo e dello statalismo da un lato, quelle dell’economicismo astratto e del liberalismo e dell’individualismo selvaggio e della finanziarizzazione dell’economia dall’altro. Ma oggi il suo metodo, i suoi valori, la sua visione, che rappresentano un punto alto di un’intera tradizione di pensiero italiana, riaffiorano con grande vigore. La faticosa e dolorosa successione degli eventi del ventesimo secolo e dei nostri anni, la riprova dei fatti (alla quale egli ed i suoi predecessori giustamente assegnavano un ruolo decisivo), dimostrano che quei metodi, quei valori, quella visione erano profondamente corretti e sono profondamente attuali. Se la vittoria o la sconfitta di un pensatore e di un educatore non si misurano sul metro del successo mondano ma sulla capacità delle sue idee di durare e rafforzarsi con il trascorrere del tempo, è giunto il momento di parlare di Carlo Cattaneo vincitore.

Per questo ho dato alla mia relazione un sottotitolo che è un vero e proprio appello:

“RICOMINCIAMO DA CARLO CATTANEO”.

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