Cirino Pomicino, figura di spicco della politica italiana, ha risposto sul Foglio del 1 ottobre con lucidità e fermezza all’intervista (Corriere della Sera del giorno prima) di Andrea Monorchio, ex Ragioniere Generale dello Stato, che ha attribuito il crollo della finanza pubblica italiana alla presunta insipienza della classe politica di governo. La replica dell’ex Ministro non solo difende una stagione politica complessa, ma offre un’analisi puntuale che mette in evidenza le vere responsabilità, spesso trascurate o mal interpretate.
Cirino Pomicino rigetta con decisione l’idea che la crisi della finanza pubblica degli anni ‘80 e ‘90 fosse da imputare alla classe politica. Al contrario, sottolinea come le decisioni di quegli anni fossero il risultato di una politica economica attentamente calibrata, e non di un’incapacità gestionale. A supporto di questa tesi, Cirino Pomicino ricorda che “Il governo Andreotti con Carli, Formica e il sottoscritto ebbe da Giuliano Amato un disavanzo primario di 38 mila miliardi di lire e restituì sempre a Giuliano Amato nel 1992 un bilancio con 3 mila miliardi di avanzo primario. Insomma, la crisi finanziaria del ’92 non fu assolutamente legata a motivi di finanza pubblica”.
Questa affermazione smonta la narrazione che attribuisce alla classe politica di governo la responsabilità diretta del crollo finanziario. C’è inoltre da sottolineare l’importante lotta all’inflazione, ottenuta con la determinante responsabilità delle forze sociali che sottoscrissero gli accordi interconfederali del 1983, del 1984 e del 1992, in continuità tra loro e ispirati dalla politica riformista dei governi di allora.
Sempre secondo Cirino Pomicino, la gestione della finanza pubblica va letta in un contesto ben più ampio, che comprende le dinamiche internazionali e le pressioni esterne. Egli sottolinea come la crisi del 1992 non fosse dovuta a una cattiva amministrazione interna, bensì a fattori di natura internazionale, come le turbolenze dei mercati finanziari e le politiche economiche globali che influenzavano pesantemente le scelte italiane. L’idea che una classe politica “insipiente” sia la causa primaria del crollo finanziario è una semplificazione che ignora la complessità delle dinamiche economiche dell’epoca.
Nell’intervista, inoltre, si evidenzia come la dilatazione della spesa pubblica negli anni ’80 sia stata anche una conseguenza del contesto straordinario in cui l’Italia si trovava. Il fardello della lotta al terrorismo, che imperversava in quegli anni (a tal proposito ricordiamo l’uccisone del Prof. Tarantelli, uno dei principali assertori delle politiche di concertazione fra parti sociali e governo), ha contribuito significativamente all’aumento delle spese statali, una scelta obbligata per garantire la sicurezza del Paese. Ciò ha comportato un aumento della spesa pubblica, ma non per incuria o inefficienza, bensì per rispondere a una minaccia concreta e urgente. La lotta al terrorismo richiedeva ingenti risorse e non poteva essere considerata una scelta di spesa improduttiva o irresponsabile. Anche in questo caso, Cirino Pomicino mette in luce come le decisioni della politica fossero sempre motivate da contingenze straordinarie, e non da una semplice mancanza di visione o competenza.
La sua analisi non si limita a difendere la classe politica, ma fornisce una lettura critica e documentata delle reali cause della crisi finanziaria. Invece di puntare il dito esclusivamente contro la politica, l’ex ministro invita a considerare le forze internazionali e i vincoli imposti dalle istituzioni finanziarie globali, che influenzavano pesantemente la gestione economica del Paese. La crisi finanziaria, quindi, va letta come un evento multifattoriale, in cui la politica interna giocava un ruolo cruciale, ma non esclusivo.
In conclusione, la riflessione di Cirino Pomicino rappresenta un invito a riconsiderare, con rigore storico e analitico, le dinamiche che portarono alla crisi finanziaria italiana, senza cedere alla tentazione di facili colpevolizzazioni o semplificazioni.