Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di  Aldo Carera 

Il tema delle periferie, urbane o meno, è talmente complesso, drammatico e urgente nei suoi tratti sostanziali da sfuggire alle semplificazioni concettuali o culturali. La variabile concretezza delle casistiche rende particolarmente significative le indagini di lungo periodo e le analisi interdisciplinari comparate. Accostamenti necessariamente rigorosi, ma non estranei a quella “libertà di cuore” che Papa Francesco chiede a chi opera sul campo a sollievo della sofferenza, e che non meno vale per mettere a frutto l’intera gamma esplorativa delle scienze dell’uomo.

Non altrimenti è possibile cogliere la sostanza profonda dell’attitudine della società contemporanea a produrre periferie esistenziali e a ridurre esseri umani alla stregua di “scarti” dei processi socioeconomici. Quell’umanità richiede uno sforzo unitario di studio e di comprensione non fine a sé stesso, ma intellettualmente nudo nell’aprirsi al confronto con la realtà per quel che è, riconoscendo in essa quel che gli alti disegni della provvidenza esigono da azioni incisive in grado di ricomporre le logiche parziali del “rammendo”, pur necessarie e meritevoli. È questa la strada tracciata dalla dottrina sociale della Chiesa sin dall’incipit (De conditione opificum) dell’enciclica leoniana del 1891. Quei capannoni d’allora, così ben definiti negli spazi e nelle gerarchie d’impresa, erano luogo di elaborazione di una invasiva cultura del lavoro che aggregava a sé chi in fabbrica e in città cercava, o era costretto a cercare, sopravvivenza e futuro.

Quelle periferie urbane in formazione erano comunità dolenti, talvolta future coree disperate, ma in esse erano rintracciabili trame di vitalità comunitarie e il solido ordito intessuto da ben riconoscibili presenze pastorali, sociali e politiche. Lì ove, in qualche modo regolati dall’azione pubblica, con le fabbriche, crescevano i quartieri popolari e prendevano forma le possibili intersezioni sociali con le abitazioni del ceto medio. In età repubblicana partiti di massa, associazionismo sindacale, welfare privato e sociale, corrispondente a vari livelli di bisogno, integravano le tutele pubbliche. Nella progressiva estensione della cittadinanza si potevano leggere antichi profili di socialità, sovente sotto traccia e diversamente incidenti. Patrimoni che negli ultimi tre decenni del Novecento sono stati progressivamente dispersi o sono semplicemente diventati invisibili ai più. Le stesse potenti attitudini aggreganti del lavoro si sono frantumate sul mercato competitivo delle individualità e dei corporativismi.

Nell’agosto del 1946 un futuro ministro del Mezzogiorno e delle aree arretrate, Giulio Pastore, nel promuovere il primo Consiglio di valle italiano per generare sviluppo e rimuovere povertà, abbandono e isolamento, anche fisico, dei comuni della sua Valsesia, identificò due fattori decisivi: rigenerare la fiducia collettiva contro gli egoismi, il pessimismo, le paure; ottenere la collaborazione di tutti gli attori presenti, o potenzialmente presenti, sul territorio: pubbliche amministrazioni, parrocchie, organizzazioni sociali, classi dirigenti, imprese private e pubbliche. Al direttore di una piccola biblioteca di valle che in quei propositi ritrovava l’antica sostanza comunitaria della medioevale Universitas Vallis Sicidae, Pastore replicò che, evidentemente, «ne sapevano più gli antichi che i moderni». Fecero seguito strade costruite, scuole e biblioteche inaugurate, funivie innalzate sulle cime del Monte Rosa, edificazioni materiali e immateriali certamente perfettibili. La tendenziale perfezione di quel disegno era l’aver affidato alle mani di quelle genti il proprio destino nell’ambito del possibile, confidando su socialità, non solo locali, in grado di specchiarsi in un’economia di mercato carica di contraddizioni ma realisticamente non rinunciabile.

Da simili riflessioni, rielaborate in un programma di indagine scientifica, ha preso spunto l’iniziativa dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia e del Dipartimento di storia economica e sociale e di Scienze del territorio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, intitolati a Mario Romani, per riprendere e reinterpretare in un convegno di studi la questione urbana rigenerata, negli ultimi decenni del Novecento, dallo sfaldamento individualistico e da rinnovate forme di esclusione sociale. Ci si è chiesti sino a qual punto, in un breve giro d’anni, potenti cesure — crisi economica, tecnologie aggressive, precarizzazione materiale e culturale del lavoro, diffusa incuria morale, pressione della globalizzazione sulle gerarchie territoriali e sulle grandi aree urbane, declino delle classi dirigenti… — abbiano reso profonda e irrimediabile la frattura che isola le periferie di oggi dal tracciato urbano di lungo periodo che le ha viste prendere forma, a partire dai processi europei di inurbamento sette-ottocenteschi. Per chiedersi infine quanto di quel passato, e delle esperienze vissute che lo hanno segnato, sia inscrivibile nelle risposte oggi possibili, per quanto parziali, tempestive o agite sui tempi lunghi, in termini di sostenibilità materiale, economica, civile e umana.

Il filo conduttore del convegno internazionale «Periferie delle città europee: istituzioni sociali, politiche e luoghi» (Milano, 6-7 giugno) e di quel che ne seguirà come impegno dei centri di ricerca proponenti, è stata l’identificazione di una rinnovata questione urbana segnata da fenomeni di segregazione spaziale che hanno eroso i margini della giustizia sociale. Come ha evidenziato la relazione introduttiva di Pierciro Galeone (Ifel – Fondazione Anci), mentre l’urbs, intesa come ambiente fisico, si è dilatata sfrangiando i confini tra urbano e non urbano, chi viveva in periferia non è stato più in grado di riconoscersi in una comunità di cittadini organizzati attraverso il diritto (civitas). L’unica condivisione possibile è diventato il consumo dello spazio urbano, mitigato in alcune realtà dall’egida efficiente di qualche tecnocrazia amministrativa.

La configurazione delle diseguaglianze, che in termini esistenziali si disloca senza distinzione di quartieri e di ceti, descrive una mappa differenziata, da città a città. Lì dove ha particolarmente infierito concentra in segmenti territoriali i molteplici volti della marginalità: degrado edilizio, cedimento delle istanze educative e formative pubbliche, carenza o scarsa qualità infrastrutturale dei servizi di mobilità, sociali e sanitari, aggravati dal decadimento o dall’assenza di spazi pubblici socialmente condivisi. Sulla faglia di diseguaglianze così strutturate, affondano le speranze di emancipazione sociale delle giovani generazioni e scivolano gli antichi ceti medi. Ben poco possono fare gli interventi ridistributivi del potere centrale anche per mancanza di risorse pubbliche e per pervicaci sopravvivenze neoliberiste talvolta inconsapevoli. L’affievolirsi degli spazi di intermediazione culturale e sociale ha lasciato mano libera alle narrazioni divisive e alle polarizzazioni politiche che rileggono a proprio esclusivo vantaggio i fondamenti della democrazia pluralista e ignorano l’etimologia morale del bene comune.

Fra i tanti casi considerati, la sessione dedicata alla Milano del secondo dopoguerra ha evidenziato il ruolo dell’iniziativa pubblica, consapevole dei problemi, efficace nei suoi interventi dirigisti sul tema della casa lungo buona parte del Novecento prima di lasciar campo ai grandi operatori immobiliari. Né è stata trascurata, ad esempio, la costante supplenza da parte del mondo cattolico e della stessa curia ambrosiana negli anni in cui Giovanni Battista Montini colse la peculiare “modernità” dell’evangelizzazione nelle periferie più povere e depresse. Lì ove la tutela dei lavoratori in quanto cittadini era affidata più a patronati sindacali e sociali che agli interventi nelle dotazioni materiali e di servizio faticosamente compendiati a livello locale e, ancor meno, a livello nazionale. Manifestazioni di quanto era consentito, anche in termini di contenimento dei problemi, dalla tenuta della convivenza democratica, cosa impossibile — ha spiegato una relazione comparata — nella Spagna franchista.

Nelle sessioni di loro competenza, geografi e urbanisti hanno identificato le nuove forme e i nuovi linguaggi della riconfigurazione virtuosa delle periferie: coworking, spazi makers, laboratori artigianali digitali, social housing, interventi di rigenerazione urbana e abitativa, esperienze pilota (per esempio community hub, ecomusei, festival).

A uno sguardo di lungo periodo, la questione delle periferie materiali ed esistenziali, così come le altre grandi “questioni” che angustiano il nostro paese (meridionale, educativa, sociale…), risulta gravata da sofferenze strutturali e da fragilità nel tessuto sociale esasperate dalla contrazione e dal cattivo uso delle risorse. Una situazione che rende ancor più decisive le azioni concrete in grado di ricreare fiducia e di favorire la cooperazione tra tutti gli attori.