Da ex-presidente di regione ho avuto, pochi mesi fa, l’occasione di riflettere in sede pubblica sui cinquant’anni di questo livello istituzionale. Non si riflette mai abbastanza sul fatto che le Regioni costituiscono forse la novità più radicale della Costituzione repubblicana del 1948, a parte ovviamente le statuizioni di principio e la proclamazione dei diritti e dei doveri dei cittadini.
Nel vecchio Regno d’Italia, almeno fino alla sua degenerazione in epoca fascista, Stato e monarchia stavano l’uno di fronte all’altro, in certo modo limitandosi reciprocamente. Nella nuova Repubblica la fonte di ogni diritto e di ogni dovere rischiava invece di essere una sola, lo Stato. Nel clima vigorosamente repubblicano in cui la Costituzione venne elaborata (subito dopo il referendum popolare per la scelta tra monarchia e repubblica), i padri costituenti vollero perciò fondare una Repubblica intesa come un processo ascendente che dalle autonomie sale fino alla sintesi nazionale.
Qualcosa insomma che fosse davvero repubblicano, quindi plurimo; senza più traccia alcuna di monarchia, ossia di potere unico ottriato dall’alto e affidato a una burocrazia centralizzata. In assenza delle Regioni lo stesso emergere del cruciale concetto di Repubblica come qualcosa di più ampio dello Stato sarebbe divenuto difficile se non impossibile. Grazie alle Regioni invece la Repubblica doveva e poteva diventare un soggetto politico finalmente caratterizzato da un vero pluralismo istituzionale. Un insieme di cui lo Stato è solo un elemento: il maggiore s’intende, ma non l’unico.
Ma malgrado i passi avanti compiuti da allora, compresa la riforma del Titolo V della Costituzione, il centralismo «monarchico» che la Repubblica aveva ereditato dal Regno risulta ben poco scalfito; e con esso le sue conseguenze più gravi, ossia l’intralcio alla crescita del Nord Italia e il blocco dello sviluppo del Mezzogiorno. Questo è più di un indizio della necessità di ripensare – certamente il regionalismo – ma più largamente nuovi orizzonti non solo territoriali, ma anche funzionali. Nel 1978, scrivendo la prefazione al mio Occidente Scomodo, Peter Nichols, corrispondente italiano del Times, registrava un dato peculiare del nostro paese:
«È un paradosso, eppure l’Italia ha un vantaggio sugli Stati nazionali di meno recente formazione: l’incapacità di creare un senso dello Stato, un po’ per l’unificazione di troppo fresca data, un po’ perché gli unificatori scelsero un tipo di Stato inadatto alle necessità del paese, fa sì che gli italiani siano più facilmente attratti degli altri popoli europei verso soluzioni sopranazionali e combinazioni a carattere regionale. L’errore fondamentale dell’Italia è stato di non permettere a questa coincidenza fortunata di progredire tanto da diventare una prospettiva originale».
La sottolineatura della «disponibilità italiana a soluzioni sovranazionali e combinazioni a carattere regionale», considerata un’occasione mancata o incompiuta, coglie effettivamente un nodo centrale, ancor più vero oggi, nella quarta rivoluzione industriale, mentre l’economia tecnologica ha portato la vera politica fuori dalle cornici tradizionali. E per mille ragioni, compresa la crisi accentuata dalla pandemia, si direbbe che le nostre istituzioni vadano disperatamente cercando quello che succedeva prima.