Nell’ultimo anno, sono radicalmente cambiati i partiti al governo del Paese. Ma è cambiata o sta cambiando anche la classe dirigente? Si tratta di una questione non secondaria, in un Paese guidato da un governo che si autodefinisce del cambiamento.
Prova a dare una risposta lo storico Guido Melis sull’ultimo numero della rivista “Il Mulino”. Si tratta di una risposta negativa, perché – come ricorda il professore – una classe dirigente non si forma “per decreto”. Ha basi profonde, radici antiche, ne fanno parte in molti. Non solo i componenti del ceto politico, ma, anche di più, i soggetti forti della finanza, i proprietari e i manager delle industrie, i percettori di rendite, gli esponenti di spicco degli ordini e delle professioni, i membri dei grandi corpi dello Stato e delle magistrature, gli alti ufficiali e persino i vertici della piramide ecclesiastica. Fanno parte della classe dirigente i presidenti delle grandi banche, i baroni universitari, i grandi medici, gli intellettuali che fanno opinione sui giornali e coloro che la stampa e le televisioni, più o meno direttamente, le controllano. Secondo Guido Melis, le classi dirigenti nuove sono il prodotto di culture nuove. E queste, a loro volta, richiedono una lunga e paziente semina. Chissà dunque quando le vedremo (e se le vedremo). Per ora prevale la linea della continuità.
Un grande studioso francese delle istituzioni, Pierre Legendre, spiegava che le rivoluzioni producono delle fratture in apparenza anche radicali; ma poi esistono sempre gallerie sotterranee e cunicoli che consentono di passare da un lato all’altro del baratro che si crea. Lì passa la continuità delle élite e si perpetua il potere. Valgono ancora i versi di una poesia di Eugenio Montale: “La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive”.