Fonte Associazione Popolari a firma di Giuseppe Ladetto
Oggi, la parola confine sembra essere diventata una parolaccia, un qualche cosa che mettono in campo le destre reazionarie e razziste per ragioni oscure e comunque sempre negative. “Vogliamo un mondo senza confini” è lo slogan che accomuna anarchici, libertari, liberal, esponenti del mondo finanziario, tecnocrati, molti cattolici ed altri ancora.
Ricordo che Limes è la denominazione di una stimata rivista di geopolitica. Ai tempi di Roma, il limes era quell’insieme di strade militari, di torri, di mura, di fossati, di palizzate che contrassegnava il perimetro dell’impero: era quindi un confine. Perché una tale denominazione per una rivista? Ci dicono gli esperti di geopolitica che al centro dell’interesse della disciplina c’è il territorio, che è appunto delimitato da un confine. Aggiungono che, nella più parte dei conflitti e dei contrasti fra gli Stati, c’è ancora oggi il territorio e i suoi confini, un territorio che per le grandi e medie potenze include anche aree, al di fuori del confine politico propriamente detto, dalle quali esse traggono risorse e sulle quali impongono i loro interessi e la loro influenza.
Questa attenzione al territorio e ai suoi confini, che attraversa la storia del mondo, è una componente della natura umana oppure un prodotto dell’avidità di potere o di ricchezza caratteristico di determinate culture?
Il territorio è al centro della vita non solo degli esseri umani, ma della più parte degli animali. In esso, questi si garantiscono gli alimenti, i luoghi sicuri da pericoli vari, lo spazio in cui trovare i partner sessuali e riprodursi. I suoi confini vengono marcati periodicamente imprimendo odori su alberi e rocce, o emettendo segnali vocali, per segnalare agli altri conspecifici che quello è il loro spazio vitale in cui non c’è posto per un numero di individui superiore a quello già presente.
Si dirà che ciò non riguarda gli esseri umani: essi non sono semplici animali; dispongono di razionalità e cultura in base alle quali sono in grado di sottrarsi ai condizionamenti di ordine genetico. Attenzione a pensare che gli esseri umani, possedendo razionalità e cultura, possano prescindere o ignorare la loro dimensione biologica: è come credere che di un edificio si possano demolire le fondamenta lasciandolo in piedi.
La ricerca etologica, l’antropologia evolutiva e le acquisizioni delle neuroscienze mostrano che la nostra specie è ancora guidata da complesse emozioni ereditarie e da canali di apprendimento prestabiliti. I condizionamenti genetici non sono un male oscuro, inutile retaggio di epoche lontane. Sono frutto di un processo selettivo teso alla nostra sopravvivenza che ha consentito la nostra evoluzione. In tema di territorio, la fondamentale differenza degli esseri umani rispetto agli animali è che, mentre questi ultimi difendono lo spazio loro indispensabile per sopravvivere, non quindi uno spazio superiore alle loro esigenze, gli umani tendono a conquistare territorio per sottomettere e sfruttare altri membri della propria specie. Domini e imperi sono una prerogativa dei soli uomini. Comunque possiamo ritenere che l’attenzione al territorio ci appartenga in quanto esseri umani, e che solo in parte l’evoluzione culturale consenta di ridimensionarla o reindirizzarla.
La nostra specie è costitutivamente sociale. È riuscita ad affermarsi grazie alla capacità di collaborare fra membri di una comunità circoscritta, inizialmente legata da vincoli di sangue. Anche in seguito, con lo sviluppo della società, superata la dimensione familiare, la solidarietà e la reciprocità, sempre indispensabili, hanno richiesto e tutt’oggi richiedono il sentirsi parte di una comunità non solo territoriale, ma durevole nel tempo che leghi fra loro le generazioni.
Chi vorrebbe la scomparsa dei confini si dichiara “cittadino del mondo”. A proclamarsi tali (come ci hanno detto Zygmunt Bauman e Christopher Lasch) sono persone dinamiche, sicure di sé, disponibili ad andare ovunque intravedano l’opportunità di trovare lavori gratificanti e ben retribuiti o di far carriera. Esse non manifestano più alcun sentimento di appartenenza alla società in cui momentaneamente si trovano a vivere, perché questa non offre loro nulla che già non abbiano o che non possano ottenere autonomamente. Sentendosi cittadini del mondo, non ritengono di avere doveri verso alcuna comunità territoriale.
Tuttavia una società non può essere un semplice aggregato temporaneo e mobile di individui. “Una società dura nel tempo: è erede del passato e prepara l’avvenire”, recita il catechismo, ma oggi i confini si indeboliscono, sia nello spazio, sia nella dimensione temporale.
Infatti, la globalizzazione, nelle modalità in cui si sta realizzando, pone questioni che vanno oltre il discorso sui confini come comunemente intesi. Con i processi di globalizzazione, espressione della modernità ultima, i confini si dissolvono o comunque si indeboliscono, ma la perdita di confini chiari (come messo in luce da Anthony Giddens e da Zygmunt Bauman) riguarda sia lo spazio geografico, sia quello temporale, due ambiti che la modernità collega sempre più. Lo spazio fisico perde in un certo senso di importanza perché si sviluppano contatti e connessioni tra mondi geograficamente lontani, per le crescenti relazioni economiche, sociali e culturali. Quello temporale si appiattisce sulla contemporaneità poiché il presente (come ha scritto Agnes Heller) non collega più passato e futuro, ma è diventato uno spazio da vivere ed esplorare, senza mantenere memoria e avere attese, senza capacità di prevedere e di programmare e senza continuità fra le generazioni.
Si perde in tal modo ogni sentimento di appartenenza e si cade in un individualismo sempre più marcato. Di qui, vengono le culle vuote che in misura maggiore o minore caratterizzano i Paesi europei (non certo solo imputabili alla scarsità di asili-nido e all’inadeguatezza degli assegni familiari, come si sente diffusamente dire).
Torniamo ai confini spaziali propriamente detti. Si dice che oggi il mondo è diventato il “villaggio globale”, ma ci ricorda Zygmunt Bauman che in realtà non è così, perché questo mondo globalizzato non conosce né la solidarietà, né la tradizione del villaggio, non possiede un centro e manca di integrità. E aggiunge che la globalizzazione divide tanto quanto unisce, anzi divide proprio in quanto unisce. La dilatazione dei confini degli Stati, infatti, fa tornare il bisogno di nuovi confini, di piccole patrie. Localismi politici, etnicismi, fondamentalismi religiosi, ma anche i neo-tribalismi metropolitani rispondono a questo bisogno.
Konrad Lorenz scriveva, già negli anni Settanta, che nelle periferie urbane delle moderne metropoli (dove il vincolo comunitario è stato spezzato e l’uomo vive in solitudine, privato della sua dimensione sociale), l’istinto di aggregazione spinge giovani sradicati, privi di riferimenti culturali, a riunirsi in bande che assumono come criterio di appartenenza vuoti simboli e bandiere e si compattano nella lotta contro gli altri (tipico il caso degli ultras nel mondo calcistico, dei gruppuscoli neofascisti e di quelli sedicenti alternativi tipo Black block): nascono così la violenza gratuita, il teppismo, la diffusa propensione all’illegalità e alle attività criminali, fenomeni che caratterizzano sempre più le società industrializzate.
Nel frattempo, altri confini compaiono e si rafforzano diventando barriere: c’è il mondo di chi è povero e quello di chi è ricco, di coloro che decidono e quello di quanti subiscono, di chi ha accesso ai beni, all’informazione, alla conoscenza e chi no. Ci dice Bauman che l’idea di universalizzazione racchiudeva in sé la speranza di dare un ordine al mondo, ma non è stato così perché la globalizzazione si presenta come disordine e caos.
E la confusione va oltre la realtà fisica tangibile e penetra nella sfera delle idee, nelle parole, nei concetti che diventano sempre più sfumati oppure risultano dilatati e quindi non tali da definire quanto racchiudono: definire infatti vuol dire porre un confine, tracciare un perimetro che separa quanto vi sta all’interno da ciò che gli è esterno e quindi estraneo. Ad esempio, voler essere cittadini del mondo, non crea una cittadinanza universale, ma semplicemente rende vuoto e sterile lo stesso concetto di cittadinanza: in pratica significa che non ci sono più cittadini ma solo individui privi di appartenenza. Lo aveva capito già duecento anni fa Giacomo Leopardi allorché scriveva: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini, e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo”.
Oggi, anche i valori si fanno incerti, mutevoli per adattarsi alle mode, alle necessità contingenti, valori fra cui scegliere di volta in volta quelli più convenienti al momento, direi “alla carta” come capita nei ristoranti con le portate. A ben vedere anche il rifiuto dei limiti in ogni ambito, una caratteristica dell’uomo contemporaneo, è strettamente associato al venir meno dello stesso concetto di confine, un rifiuto pericoloso alla base dell’hybris che ci sta conducendo verso un possibile disastro planetario.
Questa rappresentazione ci mette sull’avviso. Se dalle contese per le frontiere sono derivate guerre devastanti, dobbiamo tuttavia evitare di attribuire ai confini solo aspetti negativi gettando così via il bambino con l’acqua sporca.