COS’È IL POPOLARISMO? NON È UNA DOTTRINA MA UN METODO POLITICO, CON AL CENTRO L’UOMO. RISPOSTA A FIORONI.

Il popolarismo ha ancora tanto da offrire per la sua specificità: perché non è una dottrina ma un metodo di analisi della realtà, che pone come unica verità l’uomo e ogni uomo è unico e irripetibile nelle sue specificità e tutti sono uomini allo stesso modo.

Il popolarismo ha ancora tanto da offrire per la sua specificità: perché non è una dottrina ma un metodo di analisi della realtà, che pone come unica verità luomo e ogni uomo è unico e irripetibile nelle sue specificità e tutti sono uomini allo stesso modo.

Giuseppe De Mita

Una pubblica opinione esigente che non si sente rappresentata, che tuttavia resta in attesa di una nuova rappresentanza. Forse non sarà un argomento inedito, ma il senso con il quale mi pare sia stata posta la questione da Fioroni su queste colonne ha l’indubbio merito di fissare un punto politico centrale, che aiuta anche la discussione all’interno del mondo popolare ad uscire da alcuni spazi angusti nei quali rischia di perdersi. Specie se essa restasse inutilmente impigliata nella vicenda congressuale del Pd. Ed è un punto centrale perché pone due questioni oggettive.

La prima: quasi la metà della società italiana non si riconosce in alcuna delle proposte politiche attuali. Non solo, questo processo di distacco si è ingrossato negli anni, segno di una degenerazione dei meccanismi della rappresentanza. Ed inoltre, questa degenerazione si è svolta in concomitanza con l’amplificarsi del fenomeno della mutevolezza degli orientamenti elettorali, segno di una irrequieta e insoddisfatta ricerca di riferimenti politici adeguati: negli ultimi anni sono state ben quattro le forze politiche che hanno superato il 30% dei voti e poi sono andate rapidamente calando (e sino a questo momento mi parrebbe di poter dire che anche il successo della Meloni possa essere iscritto in questa dinamica). Nella sostanza, nessuna proposta politica si è dimostrata in grado di uscire dal corto circuito della crisi di sistema, ma anzi ne ha alimentato la dinamica.

La seconda: questa parte di società resta in attesa di qualcosa. Ma è evidente che si tratta di qualcosa d’altro, non di una riedizione riveduta e corretta di progetti che si sono già dimostrati inadeguati, se non fallimentari. Certo, direi che probabilmente non è l’attesa dell’ennesima forma organizzata di nuovismo; né dell’invenzione di un’altra stravaganza populista o demagogica; ma neppure della riedizione nostalgica di cose che, appartenendo al passato, oggi ci paiono più belle di quanto fossero. Direi che è un’attesa che ha a che fare con qualcosa che offra pacificazione, anziché nuove fratture e punti alla ricostruzione di un legame di fiducia, di partecipazione e di condivisione: più che la ricerca dello specialista sembra il desiderio di un bravo medico di base.

E direi che si tratta di qualcosa che ha a che fare con la “causa politica” di una mobilitazione evocata da Fioroni. Le ragioni di fondo della crisi, quale che sia la declinazione che ciascuno ne può fare, mi pare indubbio che attengano a questioni di natura culturale intorno alle basi (morali) dei sistemi democratici. In altri termini, non siamo arrivati così in basso perché sono mancate soluzioni tecniche a specifici problemi, ma ci siamo arrivati per il progressivo accantonamento di culture politiche in grado di compiere tentativi di sintesi dei termini esponenziali di complessità prodotti dalla modernità. Ci siamo arrivati perché è prevalsa l’illusione che bastasse un vago catalogo di buoni propositi, astratti tecnicismi e inclinazioni demagogiche per sintonizzarsi con una società in tumultuosa evoluzione, senza riflettere che quella tumultuosità segnalava più uno squilibrio da risolvere che una novità cui adeguarsi. Così nelle dinamiche delle moltitudini si è pensato che bastasse addensare quantità per puntare all’unica cosa che è sembrata diventare necessaria: arrivare al potere.

La “causa politica” di una mobilitazione mi parrebbe allora risiedere in una capacità di visione culturale su come possa essere ricomposto un equilibrio tra le multiformi istanze di libertà e le pressanti esigenze di giustizia sociale, ricostruendo quello che Moro individuava come il terzo pilastro della nostra democrazia, oltre i due appena segnalati, quello del volto largamente umano.

Su questo terreno non ho dubbi ad affermare che il popolarismo ha ancora tanto da offrire per la sua specificità: perché non è una dottrina ma un metodo di analisi della realtà che, riconoscendo nella persona umana la prospettiva ultima della politica, assume nello sforzo di proposta i termini delle contraddizioni attuali: unità e diversità; individualismo e solidarietà; persona e comunità; diritti e doveri; libertà e responsabilità; in quanto pone come unica verità l’uomo e ogni uomo è unico e irripetibile nelle sue specificità e tutti sono uomini allo stesso modo.

Un’originalità in grado di misurarsi con i problemi del presente e di offrirsi come possibile rimedio alla secessione elettorale; un’originalità non certo superata dai processi di secolarizzazione sociale, ma anzi da essi attualizzata, proprio perché ne assume i termini di conflitto. A condizione di non annacquarsi in vaghe contaminazioni culturali, ma nemmeno di isolarsi in purismi identitari: solo a condizione di restare originale.

Mi pare che questo complesso di cose, che i dati della realtà, ci chiedano di non perderci in discussioni confuse, ma di avere il coraggio, la pazienza e l’umiltà di misurarci a viso aperto con questo tempo.