Cultura: un mix di tradizione e nuovi saperi

Occorre un nuovo patto educativo con la famiglia e la società.

C’è chi sostiene che la scuola debba essere un luogo separato dalla realtà, sede di trasmissione di un sapere consolidato e resistente alla massa d’urto dell’interfaccia quotidiano con il sociale, tabernacolo delle tradizioni culturali dove la formazione ha radici lontane e si conserva gelosamente il senso di appartenenza e un certo imprintig specifico e caratterizzante

Chi la sceglie sa che tipo di educazione viene impartita, quali sono le basi su cui poggia il corso di studi.

C’è invece – e la scuola pubblica è il prototipo più attuale di questo orientamento- chi pensa che la scuola debba essere più luogo di vita che di rappresentazione della vita, un contesto dove accanto ai saperi codificati dalla tradizione e trasmessi alle giovani generazioni, possano trovare collocazione anche l’apertura al nuovo e l’attenzione alle derive sociali come mix vincente di una cultura fluente e inclusiva.

Chi sceglie il primo tipo di modello formativo si affida alla rassicurante sine cura della tradizione, chi si indirizza  verso il secondo sa che l’innovazione può arricchire o contaminare i saperi consolidati trasmessi e che occorre comunque una lunga e quotidiana opera di mediazione tra il vecchio e il nuovo, tra l’interno (inteso come programmi, indirizzi, norme, discipline) e l’esterno (influenze e tendenze derivanti dal contesto di appartenenza e dalla domanda sociale: famiglie, enti, associazioni, altre agenzie formative, mass media).

Nell’uno e nell’altro caso la scuola è sempre e comunque luogo di produzione e di elaborazione simbolica ma certamente il secondo tipo di scuola è caratterizzato da un’offerta formativa in continuo divenire, soggetta a processi di socializzazione e confronto, dinamica, aperta, democratica, stimolante.

Di questo modello formativo e di istruzione risulta interessante un aspetto: il rapporto tra la tradizione culturale che va conservata e tramandata, pena la negazione delle proprie radici culturali e del senso della continuità e della storia, e la spinta al cambiamento che ha collocato, con alterne fortune, la scuola in quel coacervo di rimescolamenti, ribaltamenti (di ruoli, di senso e di funzioni) e frizioni confuse che hanno fatto saltare la stabilità sociale, intesa come contesto di vita dove ci si riconosce.

Occorre sfatare uno dei luoghi comuni del nostro tempo: la crisi della scuola (come quella delle istituzioni, a cominciare dalla famiglia) non è stata dovuta al fatto di non essersi rinnovata e adeguata agli input sociali, ma- al contrario – di averlo fatto troppo in fretta e in modo confuso.

La scuola ha resistito con dignità e lo ha fatto bene, più per il senso del dovere e la dedizione silente dei suoi operatori che per l’ondivaga e disorientante miopia dei suoi riformatori.

A volte, curando i corollari si sono persi di vista i fondamentali: il compito della scuola non è quello di intrattenere, socializzare, far posto senza un minimo vaglio critico a tutte le sirene del nuovo.

La formazione non è un’opinione ma la storia di un processo, la descrizione di un percorso: quello che tratta dei rapporti tra l’insegnamento (come offerta colta e competente) e l’apprendimento( come formazione basilare dell’intelligenza, del sentimento e del carattere).

La cultura è selezione critica di contenuti e il termine “critica” è la chiave di accesso alla spiegazione di tutto: si impara non per ingolfamento del contenitore ma per vaglio, riflessione, ragionamento, discernimento, uso sapiente di un metodo che occorre apprendere, possedere.

La scuola non è un sacco informe da ingolfare di nuovismo, non è lo scaffale di un supermercato dove esibire mirabolanti (tanto effimeri e transeunti) progetti e progettini: c’è uno zoccolo duro che va conosciuto, appreso e rispettato ed è quello delle regole, delle competenze, dei ruoli, delle radici del passato che sono linfa vitale del presente, dei valori condivisi che ci rendono civili e ci permettono di comunicare con un linguaggio alto e nobile, universale.

Si impara con calma, con gusto, si metabolizza lentamente: questo è lo specifico didattico della scuola, ed è diverso da tutte le altre forme di apprendimento.

Chi minimizza e riduce i problemi della scuola di oggi alla sola carenza di fondi e di risorse o è male informato o dice bugie, chi pensa che nelle aule debba entrare di tutto e di più compie un madornale errore pedagogico, chi ritiene di modernizzare e adeguare al nuovo la didattica presentando progettini che durano uno sbadiglio  dimostra poca lungimiranza ma anche poca concretezza.

Sulla scuola si è riversato uno tsunami di intemperie sociali: in epoca di crisi di tutto (valori, idee, sentimenti, affetti, intelligenze, libertà) ci si rivolge alla scuola come camera di compensazione delle derive critiche che provengono dall’esterno, si spera di ripartire da lì.

La scuola però non può onestamente far tutto da sola: occorre un nuovo patto educativo con la famiglia e la società.

Inutile che i genitori reclamino a gran voce i corsi di musica e di teatro, le uscite didattiche, le gite (6 ore di viaggio e mezz’ora di visita al museo) se poi loro stessi lasciano i figli pomeriggio e sera davanti alla Tv o connessi ad internet senza un minimo controllo: queste frivole e demagogiche rivendicazioni a buon mercato vanno confutate.

Così come non è pensabile aggiornare il personale docente con corsi e corsetti di poche ore, prevalentemente tenuti da fanfaroni che strombazzano teorie spicciole o enfatizzano l’autovalutazione, senza aver messo piede in una scuola da almeno vent’anni.

Occorre una solida preparazione professionale che si acquisisce in anni e anni di studio e di letture: sono convinto che ci siano più argomenti pedagogici di viva attualità in una pagina di Dostoevskij o di Pirandello che nei manualetti della pedagogia pronto uso o nelle lezioni di qualche esperto delle dinamiche di gruppo.

Il problema della pletora dei precari non si risolve con la demagogia politica, per acquisire voti in prossimità delle elezioni: c’erano i concorsi, non se ne fanno più da anni. Perchè?

L’unica forma di reclutamento che garantisce un minimo di selezione è quella del vaglio concorsuale: è in quella sede che capita di leggere dei temi che non prenderebbero la sufficienza neanche in quinta elementare.

Quanto a considerare tutte le aree, gli ambiti, i temi e i sottotemi cui la scuola avrebbe dovuto por mano, diciamo da un ventennio a questa parte (per non andare troppo lontano nel tempo) ce n’è per tutti i gusti, naturalmente senza considerare i programmi didattici ministeriali peraltro spesse volte messi in secondo piano di fronte alla folgorazione di certe intuizioni nuoviste.

Sono molti gli input esterni e le iniziative programmate all’interno della scuola per rendere più vivo il rapporto con il territorio, valorizzare l’offerta formativa e tutte le potenzialità che l’introduzione di temi e argomenti innovativi possono generare.

Occorre tuttavia trovare sempre un punto di equilibrio per evitare di legare ad un singolo, specifico progetto l’attività didattica di un intero anno, riducendo o cancellando intere pagine di programmi nazionali, bypassando gli obiettivi educativi previsti per quel grado di scuola e dimenticando che esistono standard e requisiti minimi essenziali.

Tra la scuola del nozionismo e quella ‘giovani marmotte’ può esistere una dignitosa via di mezzo.