Già pubblicato sulla rivista Romasette il 30 Aprile 2019,
Un mese fa la visita di Papa Francesco in Campidoglio: la visione di una Roma «città dei ponti mai dei muri», l’invito ai romani ad essere «artigiani di fraternità», l’appello a individuare «risorse di creatività e di carità necessarie per superare le paure». Ne parliamo con il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, profondo conoscitore della storia recente della città.
Il Papa ha citato il convegno “sui mali di Roma” del 1974, di cui lei fu uno dei protagonisti. Cosa è cambiato da allora?
Una delle ipotesi che si fece nelle nostre relazioni iniziali era che le periferie, i borghetti erano sempre più poveri e che si abbandonava il ceto medio. Sembrava che fornissimo una chiave di lettura superata, da dopoguerra. E invece la società romana si è evoluta proprio in quella direzione: i ricchi sempre più ricchi e una fascia marginale sempre più povera. Certo, situazioni come quella di Borghetto Latino non sono come quelle di Casilino o Torre Angela ma non sono neppure troppo lontane. La seconda cosa è la provocazione che rappresentò il convegno: la speranza di un nuovo modo di governare. Fu interpretato come un atto contro la Dc, un tentativo di sostituire la classe dirigente dell’epoca. Si chiedeva una cultura di governo diversa e oggi è lo stesso: serve qualcuno che governi non solo la città ma il Paese.
Lei ha fatto riferimento ai borghetti di 45 anni fa e alle periferie di oggi che in qualche modo continuano ad essere “in sofferenza”. Di cosa c’è bisogno per farle crescere?
Noi, intendo i promotori del convegno, dal cardinale vicario Poletti a don Luigi Di Liegro a monsignor Clemente Riva, avevamo una chiara concezione: che per Roma, le periferie e le povertà romane serviva una grande mobilitazione sociale. Non si trattò soltanto di un convegno intellettuale. Non ho più visto a Roma una iniziativa in cui ad ascoltare le relazioni iniziali ci fosse la basilica di San Giovanni gremita e nei giorni successivi 14 tra sale e cinema pieni. Anche oggi bisogna creare una socializzazione forte, senza delegare alla politica. Non basta predicare il Vangelo, bisogna mobilitare gruppi, fare società. Faccio un esempio. Nei giorni scorsi sono stato a Casal Bernocchi. È una realtà buia, piena di solitudine, non c’è un punto di aggregazione, a parte la parrocchia e una pizzeria; non c’è società, ed è quello che bisogna fare. Nel febbraio 1974 si confrontarono in fondo due modi di vedere la Chiesa: uno che tendeva a fare le sue proposte culturali e uno che propugnava, con Di Liegro in testa, una riforma delle dinamiche pastorali che si traduceva in opere, in mense, in dormitori, assistenza agli anziani, in una testimonianza alta. Però dopo 45 anni siamo ancora lì, non c’è stata una grande capacità di assorbire questi problemi.
Alla luce dei recenti episodi di intolleranza nei confronti dei rom e dell’atteggiamento nei confronti degli immigrati, ritiene che Roma sia ancora una città accogliente?
No, sebbene girando per Roma si vedono anche episodi di integrazione. I rom sono stati sempre un elemento che colpisce qualche nervo scoperto, anche i miei genitori 70 anni fa ne parlavano
male. Sono un mondo diverso e non possiamo mescolarli con gli immigrati o con gli altri poveri. Quando è iniziato il processo migratorio, 30 anni fa, era tutto molto più tranquillo.
Cosa non funziona oggi?
Un meccanismo che ritengo tragico: quello dell’esaltazione della cronaca. Chi vive nelle periferie sente la televisione e legge i giornali. E si impaurisce sulle notizie di cronaca. Anche se poi la cronaca romana non è che riporti tutti questi fatti tragici di abominio morale, sessuale, criminale… Ma nessuno può negare che ci sia una politica basata sulla cronaca, fatta a colpi di tweet. Questa esaltazione della cronaca riduce di molto ogni approccio culturale nei confronti di questa realtà. Lo dico con un pizzico di ironia: una volta la cronaca la gestiva il parroco e spesso risolveva le cose con un’omelia. Oggi per fortuna non è più così ma purtroppo la cronaca la fanno politici, a mio avviso di serie b, che la cavalcano e scatenano aggressività.
Il Papa ha fatto riferimento alle dotazioni che dovrebbe avere la Capitale ed è recente la polemica tra Salvini e Raggi. Quali pensa che siano le priorità per Roma?
La gestione ordinaria della città. Roma non ha un governo, non ha un’amministrazione ordinaria. Non so quante migliaia siano gli impiegati capitolini ma non governano Roma. Non funziona la macchina operativa intermedia. Non possiamo strillare contro i rifiuti per strada quando non si sa neppure chi sono i dirigenti che dovrebbero risolvere la questione. Assistiamo solo alla sostituzione di assessori ma gli assessori non contano, valgono i direttori generali, i vicedirettori, gli amministrativi… lasciamo perdere la grande politica. È come una grande azienda: servono i Marchionne ma poi sono indispensabili i corpi intermedi. Se non si sistema la macchina amministrativa continueremo a bruciare sindaci che non cadranno su grandi fenomeni ma su banalità o sulle esigenze quotidiane: i rifiuti piuttosto che gli scontrini del bar.
Tutto questo è per mancanza di senso civico?
Non so perché, ci siamo lasciati andare tutti. C’è stato uno sbraco progressivo. Forse un peso l’ha avuto una certa politica clientelare. Ma purtroppo oggi tirano un po’ tutti a campare ed è un po’ il corrispettivo del fatto che nelle periferie non c’è più l’attenzione all’aspetto sociale.