La lettura combinata del DEF, in uno con gli ultimi DPCM ed il decreto “Rilancio” conferma la situazione drammatica in cui si trova il Paese. Il Governo aveva – con grande scelta di civiltà – puntato con il lockdown totale alla tutela assoluta della salute, mettendo in conto una perdita significativa di PIL (di redditi per i cittadini), nella prospettiva di recuperare velocemente una volta debellata la pandemia. Senonché gli effetti sul PIL sono stati immediati mentre la pandemia continua a correre! Da qui la decisione di rischiare una apertura seppure prudente, nella consapevolezza che il Paese può reggere solo una ulteriore contenuta contrazione del PIL rispetto a quanto già previsto dal DEF, utilizzando tutte le risorse ritenute compatibili con una equilibrata gestione del forte processo di indebitamento in atto. Ricapitoliamo.
Nel DEF, sulla base di una significativa ripresa delle attività a maggio, da completare a giugno, è stata stimata una contrazione del PIL nazionale da 1.788 miliardi di euro del 2019 a 1.661 miliardi di euro del 2020 con una contrazione assoluta di 126 miliardi di euro (-7,1%). Sulla base della perdita di entrate fiscali connesse e dell’originario deficit previsto per il 2020, in uno con la manovra da 25 miliardi di euro dei decreti “Cura Italia” e “Liquidità”, il deficit complessivo è stato stimato in 118 miliardi di euro.
Ciò, in un contesto nel quale la BCE ha annunciato acquisti di titoli, al netto dei rinnovi, per 189 miliardi di euro, pari al 16,988% del potenziale di fuoco di 1.100 miliardi di euro messo in campo.
L’ulteriore manovra in deficit di 55 miliardi di euro prevista dal decreto “Rilancio” è dunque compatibile con le risorse acquisibili (189 miliardi di euro), atteso che il deficit assommerebbe a 173 miliardi di euro (118 miliardi + 55 miliardi) lasciando un ulteriore margine di 16 miliardi di euro.
Ma lo stesso DEF, ipotizzando una “ripartenza” più lenta, come – di fatto – si sta verificando stima la perdita di PIL nominale complessivo pari al 10,4% del PIL 2019 (cioè 186 miliardi di euro rispetto ai 126 miliardi) con una contrazione assoluta di 60 miliardi equivalenti a -24 miliardi di euro di ulteriori minori entrate fiscali- che più che annullerebbero il margine residuo di 16 miliardi di euro.
Se consideriamo che l’autorevole ufficio studi di Unicredit stima molto probabile una perdita del 15% (cioè ulteriori 82 miliardi di euro di PIL nominale per minore entrate finali di 32 miliardi di euro) appare di tutta evidenza che immaginare ulteriori manovre di sostegno oltre quelle previste nel presento decreto “Rilancio” è poco realistico.
A meno che non si voglia ricorrere al MES in attesa di una piena operatività dei Recovery Fund (per l’Italia 17% di 500 miliardi di euro pari 85 miliardi di euro) realisticamente prevedibile per l’inizio del 2021.
Dunque sorge spontanea la domanda: le disposizioni complessive di sostegno previste in particolare nel decreto “Rilancio” appaiono sufficienti a traghettare il Paese fuori dall’emergenza?
Tralasciando di esprimerci sulla dimensione quantitativa (chi non auspicherebbe maggiori risorse!) ci preme richiamare una riflessione sulle modalità operative, che va ben oltre la polemica non priva di fondamento sulle “richieste” manifestate da grandi gruppi industriali anche con sedi fiscali fuori l’Italia. Intendiamo riferirci alla “assicurazione” pressoché totale – da parte dello Stato – del credito di emergenza che il sistema bancario dovrebbe erogare. Intanto prendiamo atto che la roboante manovra da 750 miliardi di euro a fronte di 5 miliardi di euro di maggiori garanzie era una bufala, come più volte richiamato. Lo confermano i nuovi stanziamenti, previsti dall’articolo 31 del decreto “Rilancio” (laddove sembrerebbe, per altro, esserci un refuso significativo nel comma 1), a favore dei fondi di garanzia che – di contro – rendono ora possibile la manovra a suo tempo annunciata e da qualche giorno attivata seppure molto lentamente.
Dunque – senza dibattito politico – lo Stato Italiano ha scelto come via maestra per gestire la crisi la concessione di una garanzia pressoché totale a favore delle banche per un ammontare di almeno 600 miliardi di euro a fronte di un monte complessivo di crediti in bonis al 31 dicembre 2019 di 1.681 miliardi di euro (fonte ABI rapporto mensile gennaio 2020); ciò nel drammatico realistico presupposto che il “sistema bancario”, per quote significative in mani estere o private, non avrebbe assunto un ruolo positivo se non adeguatamente garantito. Dimenticando una considerazione. Se le “cose” “andranno” male saranno le banche a privatizzare lo Stato italiano chiamato a risponde di alcune centinaia di miliardi di euro di credito deteriorato! E così invertendo la naturale dinamica economica secondo la quale se l’economia va male le banche soffrono e lo Stato nazionalizza, con il paradosso che in questa crisi pandemica tutti stanno perdendo o rischiano di perdere qualcosa ad esclusione del sistema bancario a conferma, haimé, del dominio della Finanza sullo Stato.
Anche per questa consapevolezza si pone l’esigenza di riflettere sulla logica complessiva delle manovre economiche in atto, che vedono “azionati” una molteplicità di strumenti/obiettivi: spesa pubblica strategica, sostegno al reddito e all’occupazione, fondo perduto alle imprese, liquidità. Non sarebbe più conducente, per la gestione della drammatica crisi, focalizzarsi – soprattutto nei prossimi provvedimenti ove dovessero risultare, haimé, necessari – su un unico (massimo 2) strumento/obiettivo? Più esplicitamente parrebbe più opportuno concentrarsi su un’unica misura sulla quale “investire” le ulteriori limitate risorse eventualmente disponibili, come una “rimodulazione” del reddito di cittadinanza” in “reddito universale” di sopravvivenza che scongiuri la miseria ma renda chiaro a tutti che oltre non si potrà più andare. Nessun scontro ideologico, solo una riflessione corale per cercare soluzioni nuove a difficoltà inedite. Ciò anche in considerazione di una ulteriore constatazione. Siamo diventati tutti macroeconomisti ed epidemiologi ma nessuno parla di futuro, nessuno ha avviato un’analisi serie su cosa è veramente successo.
Nessuno ha il coraggio – diciamo meglio: nessuno che “conta” ha l’interesse- di denunciare la verità inedita: il coronavirus mette in radicale discussione la logica intima del capitalismo finanziario: le concentrazioni.
Concentrazioni di uomini e donne nelle Città-Stato; concentrazione di “vecchi” in case di riposo; concentrazione delle produzioni agricole e degli allevamenti; concentrazione delle produzioni industriali; concentrazione dei sistemi distributivi. Già perché più il sistema si concentra più il capitale astratto (quello finanziario e della comunicazione virtuale) può controllare.
E’ questa la verità scomoda per il capitale e inedita per l’umanità che ci consegna questa epidemia: occorre impostare una colossale strategia di “de-concentrazione”, nella consapevolezza che ciò è necessario per la sopravvivenza dell’uomo/ambiente ma anche economicamente possibile a cominciare dalla produzione delle energie rinnovabili e dall’ampia introduzione dello smart working.
Non decrescita ma de-concentrazione. Una strategia, un grande processo schumpeteriano di distruzione/creazione di nuove realtà e opportunità di lavoro che deve essere agevolato senza – tuttavia – distruggere la vita delle persone garantendo loro una forma universale di sostegno. Dunque tutto in discussione. Per questo occorre un nuovo pensiero collettivo che dia voce ad una visione inedita ma sostenibile del bene comune.