Il carcere come soglia
Nell’immaginario collettivo la prigione resta luogo di esclusione, punizione, annientamento. Dionisi rovescia il paradigma: le celle diventano stanze di consapevolezza, in cui il tempo non serve solo a espiare, ma a comprendere e a ricostruirsi. Non c’è improvvisa redenzione né retorica della seconda possibilità: ci sono percorsi lenti, talvolta incerti, che restituiscono alla persona la capacità di nominare sé stessa, studiare, imparare a convivere con la propria storia. È un ribaltamento che interpella lo Stato e, soprattutto, la società civile: se la pena è solo reclusione, diventa vendetta; se è anche educazione, torna a essere giustizia.
Le voci dietro le sbarre
Il valore del libro sta nelle testimonianze. Operatori, detenuti, volontari, cappellani: un microcosmo che la politica cita spesso ma ascolta raramente. Dionisi — ideatore dei programmi radiofonici “Il Vangelo dentro” e “I Cellanti” — non osserva da lontano: entra nelle carceri, registra sentimenti, paure, resistenze. C’è chi commette errori gravissimi, chi tenta di rialzarsi, chi fallisce. Eppure ciascuno conserva una dignità inviolabile. È il cuore della Costituzione: la pena deve tendere alla rieducazione, non alla demolizione morale. Non è un dettaglio giuridico, ma un imperativo umano.
Una domanda che ci riguarda
La prefazione di Antonio Tajani richiama la responsabilità collettiva: il carcere non è un recinto da dimenticare, ma uno specchio della società. Come trattiamo chi ha sbagliato rivela ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare. La risposta non può essere delegata solo alle istituzioni: occorrono politiche, professionalità adeguate, programmi seri di reinserimento. Ma occorre anche una cultura della comprensione, capace di restituire nome e volto a chi vive “dietro”. In questo saggio, Dionisi ci invita a non voltare lo sguardo, ricordando che le prigioni più difficili da aprire sono spesso quelle interiori.

