L’autore, giornalista e saggista, già Senatore del Partito democratico, compie un’esplorazione senza remore e infingimenti all’interno dell’universo mentale e politico della sinistra. I suoi pensieri sono raccolti in un libro fresco di stampa, Un’altra storia. Se quarant’anni di Thatcher e Reagan visembran pochi (Prefazione di Costanze Reuscher e Antonio Roccuzzo), Edizione Ytali, 2022. Per gentile concessione pubblichiamo di seguito il capitolo intitolato “Sospesi”.
Roberto Di Giovan Paolo
Sospesi tra voglia di essere protagonisti e “damnatio memoriae”. La sinistra, i progressisti europei, mondiali se ci mettiamo almeno i democratici USA, in realtà da anni vivono questa dicotomia tragica alternando ubriacature movimentiste, spesso senza una costruzione di programma e di piano d’azione, e la necessità-dovere di governare; vissuta, quest’ultima, sempre in ritardo e in emergenza oppure come una sorta di “maledizione”: un obbligo che fa sentire inadatti, svuotati (di ideali), impauriti, sempre in difficoltà.
Con inevitabili conseguenze: o la pavida gestione del presente con il volto di chi deve sempre scusarsi di scelte quotidiane che sembrano imposte dall’alto, dai “poteri forti” e dall’emergenza, oppure l’onnipotenza del momento con l’annuncio prossimo della “rivoluzione” (sia chiaro, metaforica) qui e ora, anche quando si tratta di mere e inevitabili scelte di transizione o di necessarie misure dovute.
Con ulteriore scivolamento in un solipsismo che allontana dal “proprio popolo” (dagli altri di fatto sei già lontano essendo considerato a priori “progressive” o di sinistra), con definitivo isolamento e futura dannazione della memoria. Gli esempi sono molti: da Blair a Clinton e Al Gore, da Jospin a Zapatero e il SubComandante Marcos (più scomparso che dannato), oppure Schroeder e Tsipras, e poi in Italia Rutelli, Veltroni, se volete anche D’Alema, sicuramente Prodi (dillo ai famosi 101). Matteo Renzi è riuscito ad avere l’uno (isolamento) e l’altra (la damnatio memoriae), esagerato com’è… Ma va detto che l’icona di sinistra non ha mai voluto farla.
Eppure, il popolo della sinistra o quello progressista (che non è sempre la stessa cosa, e li divide il culto della personalità del leader e un’idea di diversa progressività nell’applicazione concreta degli ideali) è un popolo generoso, disponibile a confrontarsi, a sentirsi dire ogni due per tre che ha sbagliato tutto, pronto a investire in nuovi leader e nuovi temi in men che non si dica. Disponibile a riconoscere i pregi (quel che è grave, spesso solo in forma tattica) negli avversari, a servire disciplinatamente ai tavoli nelle feste di partito e a girare casa per casa vendendo gadget, e perfino sogni; a fare campagne elettorali paese per paese, piazza per piazza, “al lavoro e alla lotta”, sotto la pioggia e sotto il sole cocente. E pronto a commuoversi per regole a volte antiche e desuete.
Perché tutto questo avviene con ripetitività? Può essere solo un segno dei tempi, quando questi tempi si allungano a diversi lustri di distanza? È quasi un obbligo saper vedere nuove leadership, altre dal presente. Crescere nei media, andare al governo (poco), fallire, piangere sul latte versato. Ma può bastare a riscaldarsi il cuore lo spiegare tutto con l’adorabile versione moderna del “rinnegato Kautsky” o della controrivoluzione interna dei nobili vandeani? Non sarà che si dovrebbero cercare le risposte meno nella frenesia del presente e più nella lettura del passato, gettato alle spalle troppo frettolosamente, piuttosto che ritrovarsi di nuovo e in corsa all’ennesimo governo “in coabitazione”, quando va bene; di corsa e in preda all’emergenza “usuale”, che favorisce la coazione a ripetersi? E in buona sostanza dando ragione a Marx che prevedeva nel ripetersi di una storia la trasformazione da tragedia a farsa? Forse fermarsi per un momento a riflettere sull’inizio di questo ciclo, che pare continuare all’infinito e condannare i suoi protagonisti all’irrilevanza del “tempo lungo”, potrebbe aiutare.
Per esempio a rimuovere la “damnatio memoriae” e rileggere “laicamente” gli avvenimenti, ponendo alcuni protagonisti della sinistra nella giusta luce e recuperando alcuni provvedimenti dall’oblio. Una delle regole della sinistra e dei progressisti è difatti non essere quasi mai orgogliosi e consapevoli dei progressi fatti fare alla società civile da loro amministrata: basterebbe delle volte il confronto con le “società civili” dei governi di destra che li seguono per scoprire e riscoprire lati positivi e tendenze da valorizzare. Per poi rivolgersi al passato (sì, la storia e a volte anche la cronaca del passato prossimo, insegnano ancora qualcosa) e arrivare al nodo reale, alla domanda fondamentale, al momento decisivo in cui la sinistra e i progressisti non sono più stati al centro della loro (e tantomeno dell’altrui) narrazione.
Una narrazione forse inconsapevole e ben poco conscia dell’attuale società della comunicazione (talvolta ossessiva) e della politica giocata attorno o addirittura solo con i media, in cui la visione di sinistra e progressista diceva ancora qualcosa all’uomo comune, al cittadino. Anche eventualmente a quello di opinione contraria. E gli diceva che il loro futuro sarebbe stato o avrebbe potuto essere diverso, alternativo e in definitiva migliore del presente che vivevano.
Io credo che quel momento ci sia stato, è ben localizzabile, e a quel momento si deve tornare per riprendere il filo della matassa, svolgendolo pazientemente; per riprendere da lì il percorso, senza dimenticare quello che c’è stato dopo, i risultati e le sconfitte, ma guardandole con occhio diverso, per farne tesoro e ricominciare un discorso, a se stessi e alla società civile. E quel momento richiama il 1979 e i susseguenti anni Ottanta: la vittoria culturale e ideologica di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Non due diavoli (al limite, anche…) ma due interpreti politici elettoralmente invincibili, perché per certi versi idealisti e anche inconsapevoli, talvolta, di essere i registi di una svolta giunta a maturazione attraverso le loro proposte e divenuta poi una svolta mondiale travolgente, a tratti inflessibile e percepita come pienamente corroborata da fatti.
Certo, anche da quelle che oggi chiameremmo “fake news”, allora non smascherate, e divenuti presunti fatti oggettivi assunti poi come regole d’uso da tutti. Comprese parti notevoli della sinistra e dei progressisti. Regole d’uso e di ingaggio che ancora oggi maneggiamo per districarci nella società del nostro tempo e che rischiano, se assunte ancora acriticamente, alla vigilia di una nuova era – di internet delle cose(IoT), di 5G, di intelligenza artificiale, data mining e transizione digitale ed ecologica in genere – di divenire le uniche regole globali di ingaggio della società civile e della politica, anche quando voglia misurarsi con questo tempo di cambiamento, forse altrettanto epocale di quello di quarant’anni fa.