Dibattito | Sbaglia la Schlein a chiedere la testa di De Luca.

Il terzo mandato, considerato da alcuni un ostacolo al fisiologico ricambio della classe dirigente, trova pochi riscontri a livello europeo. Anzi, un po’ ovunque l’esperienza di leader locali è valorizzata.

In nome dell’opposizione al terzo mandato, Elly Schlein sembra orientata a proporre una figura alternativa a De Luca per la guida della Campania, individuando come possibile candidato Roberto Fico, ex presidente della Camera e noto esponente del Movimento 5 Stelle. Questa posizione, pur esibita come scelta di rinnovamento, rischia di generare una frattura nel centro-sinistra proprio mentre ci si prepara ad affrontare il referendum sull’autonomia differenziata. Potrebbe verificarsi una caduta di tensione nella difesa delle istanze del Meridione qualora fosse umiliato il protagonismo del governatore campano.

Il terzo mandato, considerato da alcuni un ostacolo al fisiologico ricambio della classe dirigente, trova pochi riscontri a livello europeo. Anzi, un po’ ovunque l’esperienza di leader locali è valorizzata, riconoscendo in pratica che l’innalzamento del tasso di longevità può comportare il prolungamento dell’attività politica. Guai a sciupare un patrimonio di competenze che la maturità di regola contempla: non ce ne dà una prova Sergio Mattarella, un Presidente che al secondo mandato – mai prima conferito – esalta, non più giovanissimo, l’affidabilità di uomo delle istituzioni? Senza un’apertura a queste considerazioni, Elly Schlein rischia di alienarsi una parte dell’elettorato e della classe dirigente.

Siamo tutti, in queste ore, con il fiato sospeso per la battaglia elettorale tra Harris e Trump. Vale la pena ricordare come il modello costituzionale americano contempli forti elementi di equilibrio e stabilizzazione. Un aspetto interessante è la rappresentanza paritaria nel Senato, dove ogni stato, indipendentemente dalla popolazione, elegge due senatori. Questo meccanismo è stato concepito per garantire “pari dignità” tra stati grandi e piccoli, impedendo che i territori più popolosi possano sovrastare quelli meno abitati.

Inoltre, sempre guardando all’America, è pure da considerare il valore unitivo del “ticket” quale formula elettorale per la conquista della Casa Bianca. Il “ticket” consente di presentare al corpo elettorale due candidati, uno per la presidenza e l’altro per la vicepresidenza. In questo modo le squadre contrapposte – quella dei Democratici e quella dei Repubblicani – non scadono nella “semplificazione” estrema della leadership solitaria, senza la possibilità di correggere, con la figura del vice, i difetti del candidato presidente. Insomma, la democrazia americana si aggrappa a questi ammortizzatori, malgrado la tendenza attuale all’inasprimento finanche brutale della competizione per il potere, come dimostrano gli ultimi scorci della campagna elettorale.

Da noi, purtroppo, i politici si soffermano solo sugli aspetti deteriori delle Convention a stelle e strisce, in perfetto stile hollywoodiano. Rifulge l’effetto speciale, non la sostanza. L’americanismo entra perciò nel circuito della politica nostrana più per le deformazioni del sistema che per le risorse (ancora) presenti al suo interno. Invece dovremmo fare il contrario, ovvero riscoprire la bontà dell’ascolto e del confronto costruttivo, e quindi della mediazione. Non si vince perché si tagliano le teste. In definitiva, il cambiamento opera seriamente, e produce cose buone, solo se assorbe e sviluppa le ragioni di un sodalizio a maglie larghe, con il pieno rispetto delle diversità. Se ne ricordi, la Schlein!