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venerdì, 16 Maggio, 2025
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Dio nella storia, la cultura nella fede: l’eredità viva del Simbolo niceno

Riproponiamo per gentile concessione del direttore del quotidiano vaticano la seconda parte dell’articolo di Michel Fédou (“Il Concilio ecumenico di Nicea evento di Sapienza” - 15 maggio 2025). L’autore prende spunto dal recente Documento della Commissione teologica internazionale.

[…] Il rapporto tra Rivelazione e cultura non è a senso unico: da un lato, infatti, ancor prima di essere raggiunta dal messaggio cristiano, la cultura è già abitata da una certa attesa di Dio (come riconoscevano i Padri della Chiesa quando parlavano dei semina Verbi); dall’altro, una volta accolta la Rivelazione, la cultura stessa contribuisce ad arricchire l’espressione della fede, ed è proprio quello che è successo con l’introduzione della parola homoousios per esprimere l’identità del Figlio di Dio.

Il documento aggiunge qui un’importante precisazione: «In questa assunzione della cultura, un posto unico e provvidenziale deve essere riservato al rapporto tra la cultura ebraica e quella greca» (86). Questa affermazione non è stata sollecitata solo dall’uso della parola homoousios a Nicea: i secoli precedenti avevano già attestato il rapporto tra l’una e l’altra cultura; gli stessi scritti del Nuovo Testamento erano stati redatti in greco e, ancor prima dell’era cristiana, la Bibbia ebraica era già stata tradotta in questa lingua. Il documento riconosce quindi «una dimensione fondatrice in questo innesto della cultura greca sulla cultura ebraica» (86). Naturalmente non dimentica che il cristianesimo antico si esprimeva anche in altre lingue, come il siriaco o l’armeno. Al contrario, richiama l’attenzione sull’importanza dell’“interculturalità”. Correttamente intesa, l’interculturalità non significa né una semplice “giustapposizione” di culture né, al contrario, la loro «fusione in un tutto indistinto» (87); essa si fonda in realtà sul piano di Dio manifestato nell’evento della Pentecoste, secondo il quale i credenti di lingue diverse ricevono, attraverso lo Spirito, la comunione in Cristo.

Il riferimento al Concilio di Nicea rimane comunque essenziale, non nel senso che esso elimini la necessità di esprimere la fede in lingue diverse dal greco ma nel senso che questa stessa traduzione può trarre ispirazione dal lavoro svolto un tempo da questo Concilio: «Da un lato, si tratta in effetti di sottolineare che è proprio in queste categorie greche che si è espressa in modo normativo la Chiesa e che queste sono dunque solidali per sempre col deposito della fede. D’altra parte, tuttavia, nella fedeltà ai termini sorti in quest’epoca e trovando in essi la sua radice viva, la Chiesa può inspirarsi ai Padri di Nicea per cercare oggi espressioni significative della fede nelle differenti lingue e nei vari contesti» (89).

Con il Concilio di Nicea, dunque, siamo davvero in presenza di un «evento di Sapienza» che ha una portata culturale e interculturale. In linea con l’“evento Gesù Cristo” a cui si riferisce, il Simbolo niceno è testimone di qualcosa di veramente nuovo, ed è proprio questa novità che il linguaggio homoousiosesprime a suo modo. Il documento osserva che l’errore di Ario, come le varie “eresie” che hanno segnato la storia della Chiesa, può essere visto come una resistenza fondamentale a tale novum (90). Grazie a questo documento, in ogni caso, è chiaro che il Simbolo di Nicea, oltre alla sua importanza dottrinale e alle sue implicazioni per la vita dei credenti, contribuisce a far luce sul rapporto del cristianesimo con la cultura greca e, attraverso questa, sul rapporto della Rivelazione cristiana con le culture del mondo.