Discorso all’inaugurazione dell’anno accademico 1953-1954 dell’Università Internazionale di Studi Sociali, il Pontificio Ateneo «Angelicum». Prima di De Gasperi, presentato dal rettore padre Felix A. Morlion o.p., avevano preso la parola Henry Luce, editore di «Time», e l’ambasciatore colombiano presso la Santa Sede Antonio Montalvo, oltre a Robert Rochefort, dirigente del Comité Intergouvernamental pour les migrations européennes di Ginevra. De Gasperi critica l’internazionalismo del movimento operaio perché incapace di contribuire alla ricostruzione e alla pace attraverso l’unificazione europea; paragona la classe operaia negli Stati Uniti con quella in Russia; sottolinea che la centralità dell’uomo come persona è una caratteristica della civiltà europea; identifica nell’Europa unita una possibile mediazione fra capitalismo privato e capitalismo di Stato.
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La caratteristica più suggestiva del movimento operaio del secolo XIX fu forse il suo internazionalismo. L’appello del «Manifesto Comunista» agli operai di tutto il mondo perché si unissero, si fuse in un primo tempo coll’umanitarismo internazionale di Giuseppe Mazzini, il quale insegnava che «nella cooperazione e divisione del lavoro, la vita nazionale è lo strumento, la vita internazionale è il fine». Ma questo pensiero del genovese, che la vita internazionale risulti dal coordinamento delle attività nazionali, viene ben presto superato dal socialismo il quale tende a rompere il cerchio delle frontiere nazionali, in nome della lotta di classe del movimento mondiale operaio. Benché l’«Internazionale» non abbia saputo impedire né ritardare la guerra ’70, né il crollo della Comune e si sia ben presto spaccata in due per la scissione dei bakuniniani, a quei tempi già faceva paura, tanto che il cardinale Mermillod nelle sue celebri prediche in Santa Clotilde a Parigi, la definiva «une doctrine qui s’affirme, une armée qui s’avance et une église qui s’organise». In verità nella prima forma, essa finì di esistere nel 1889, si ricostruì come organizzazione mondiale dei partiti politici che si erano andati creando sul tipo della socialdemocrazia germanica, e prevalse, finché venne la rivoluzione russa a creare la «Terza Internazionale».
Altre organizzazioni parallele sorsero fino ai nostri giorni nel campo sindacale. Ora è vero che l’efficacia dell’internazionalismo è venuta a mancare proprio nei momenti in cui avrebbe dovuto operare, cioè alla vigilia dello scoppio delle guerre e durante l’elaborazione dei trattati di pace; ma le ragioni di tale impotenza sono così evidenti, che il fatto non sorprende. Sorprende invece che tale inefficienza si dimostri anche sul territorio propriamente internazionale, quale è quello della unificazione europea. L’incapacità di operare per evitare l’urto fra le nazioni o di contribuire a comporre i contrasti nati dalle guerre è comune a tutti i movimenti internazionali. Anche i sindacati cristiani, entrati più tardi nell’arena, vennero sommersi dalla marea nazionalista, né i partiti ad ispirazione cristiana, rappresentati nei vari Parlamenti, trovarono modo di corrispondere agli appelli per la pace del Pontefice romano. Ma quando viene il periodo della ricostruzione, sono proprio i cristiani che si trovano in prima fila, quasi senza darsi previo appuntamento, nello schieramento europeista. Non vi mancano certo anche i rappresentanti del socialismo democratico; ma come mai trattandosi del primo esperimento concreto ed organico di permanente cooperazione internazionale, il movimento operaio tutto intero non ha risposto all’appello? Non era scoccata la sua storica ora?
Alcune cause sono di carattere contingente e facilmente localizzabili. Quando il Movimento Europeo si impose, i laburisti, partito di governo, si dissero preoccupati dei loro rapporti col Commonwealth, ma in realtà si mostrarono più preoccupati ancora delle loro conquiste sociali che in una Europa unita avrebbero potuto risultare diminuite; dei socialisti francesi invece, una parte notevole reagì negativamente per timore della rinascita germanica. Ma ben più incisivamente influì l’Internazionale comunista che, nell’interesse dello Stato-guida moscovita, deviò il movimento operaio dalla marcia verso l’unione europea, che pur sarebbe stata una sua stazione naturale e storicamente logica, corrispondente alle sue origini, al suo carattere, alle necessità del suo sviluppo. La classe operaia in Europa ha infatti una sua propria configurazione, che risulta evidente, se si statuisce un confronto fra l’operaio europeo e l’operaio americano e il lavoratore russo. In America l’operaio si è sviluppato in uno spazio quasi illimitato e con risorse sempre nuove.
Negli Stati Uniti l’uguaglianza dei diritti, base della democrazia politica, si appoggia anche sulla uguaglianza dei punti di partenza. L’americano si sente al di là dei gruppi sociali, poiché può sempre sperare di trasferirsi dall’uno all’altro. L’unità della società americana sta nella speranza, che ciascuno può fondatamente nutrire, di partecipare, in una fase o nell’altra della sua vita, ai benefici della classe capitalista. L’individualismo americano risale alle qualità specifiche e intraprendenti dei colonizzatori e trova sempre ancora soddisfacimento e possibilità di operare nella dinamica di un vasto mercato, di un crescente consumo e di un potenziale produttivo sempre in aumento. In una società così fatta, anche il movimento sindacale operaio si esaurisce in agitazioni salariali, senza creare una dinamica politica, tanto che il sindacato americano ci appare come un organismo neutrale che, in forma della teoria sulla capacità di acquisto, ha scoperto ed accettato la solidarietà dei consumatori coi produttori. Radicalmente all’opposto sta il tipo sociale del lavoratore russo. Come tutte le classi della storia russa, anche la sua classe lavoratrice moderna è un prodotto del potere politico. Nobiltà e borghesia imprenditrice vennero create dallo zarismo, e «l’intelighentia» fu merce d’importazione. Germinata spontaneamente sul suolo russo è soltanto la plebe contadina, una classe però che in conseguenza della vastità dello spazio su cui si estende, manca di impulsi collettivi e di consapevolezza.
Le industrie e gli operai dell’industria devono invece la loro origine ed il loro sviluppo ad una minoranza ardita, che impadronitasi del potere politico in seguito alla disfatta, ha imposto un’economia pianificatrice e ridotto le organizzazioni cooperative e i sindacati ad organi esecutivi del piano, secondo gli ordini dello Stato. Sotto questo rullo pianificatore, l’individuo scompare, e gli stessi sindacati russi operano con la stessa mentalità di chi considera l’uomo non come un fine, ma come uno strumento della collettività. Non si può tuttavia negare che il collettivismo russo è anche un riflesso di condizioni ambientali e storiche, che rivelano una continuità di rapporti fra Stato e uomo, cosicché si potrebbe concludere che il comunismo odierno russo riproduce sul piano del secolo XX situazioni analoghe dei secoli passati. Fra queste condizioni storiche, bisogna dar rilievo anche al rapporto fra Stato e Chiesa.
In Russia, sia sotto il Rurik che durante il dominio tartarico, sia sotto il gran principato di Mosca o sotto il potere assoluto degli zar, che cominciava con Ivan III , domina sempre quello che si chiama il sistema cesaro-papista, la fusione cioè dell’impero con il sacerdozio. E la fatale eredità di Bisanzio per cui il potere statale si impadronisce dell’uomo intero, signoreggia corpo ed anima. In tutta la storia moscovita si cerca invano un contrasto fra Stato e Chiesa, che offra all’individuo l’alternativa di un appoggio materiale o morale. Egli rimane solo davanti a un potere chiuso e monolitico. Anche la rivoluzione, non deriva da una dialettica interna, ma da influssi esterni. Così nel totalitarismo del potere politico è la veste che muta, non la sostanza: l’individuo rimane assorbito, annullato, il tipo del lavoratore russo nei suoi rapporti con la collettività non si modifica, né parlando in generale si può dire che egli acquisti una nuova coscienza della sua personalità. Ora se raffronteremo il divenire del lavoratore europeo con la formazione del tipo americano e con la produzione del tipo bolscevico, si riveleranno subito alcune sostanziali caratteristiche della classe lavoratrice europea.
Uno scrittore viennese, Ludwig Reinhold, in un volume recentissimo ha condotto fino in fondo questo raffronto analitico e benché le sue premesse e le sue deduzioni non appaiano tutte persuasive, alcune conclusioni sono senz’altro accettabili. L’operaio salariato europeo ha dovuto cercare e difendere il suo collocamento entro uno spazio limitato ed insufficiente, in mezzo ad uno sviluppo industriale, ora forzato, ora asfittico, di fronte ad una borghesia ora egoista, ora allarmata, raramente illuminata, essa stessa uscita di recente da lotte che l’hanno portata alla conquista del potere politico, nello stesso tempo che al predominio economico. Perciò, anche l’operaio europeo è cresciuto in uno spirito di battaglia ed è stato facilmente attratto dalla pratica e dalla dottrina della lotta di classe. Poiché le dimensioni dello spazio economico si dimostrano troppo anguste e le risorse insufficienti, in ciascuna nazione la lotta si acuisce per la conquista del potere politico, poiché si attende dallo Stato che supplisca alle deficienze naturali dell’economia. Di qui il carattere prevalentemente politico del sindacato europeo, e la politique d’abord del movimento socialista. E questa è già una caratteristica notevole, per quanto riflessa, che differenzia l’operaio europeo da quello americano.
Ma un elemento storico più profondo si impone alla nostra considerazione. La società europea, nonostante molte deviazioni e frequenti contrasti, riconosce che le sue origini, il suo corso, le sue evoluzioni, la portarono a collocare al suo centro, non lo Stato, non la collettività ma l’uomo, la persona umana. Qui la concezione cristiana e quella umanitaria si fondono e sono confortate dalla storia. Quando Toynbee, che pur giudica al di fuori del cattolicismo, dichiara alla Tavola Rotonda di Roma di essere andato in pellegrinaggio al Sacro Speco, per venerare il luogo d’onde partì l’impulso alla nostra civiltà, afferma una verità, di cui i moderni raramente hanno consapevolezza. Ma rimane vero che l’Europa della moderna civiltà si inizia nel momento in cui si diffonde e prevale il principio che l’uomo è persona, che egli diventa persona a mezzo del lavoro, ma soprattutto in quanto il suo fine sovrasta quello dello Stato. È così che l’Europa diventa e si sente una comunità degli spiriti che oltrepassa le frontiere politiche e quelle del sangue.
Tale sfondo metafisico costituisce anche la caratteristica differenziale del movimento operaio. È l’impronta di nobiltà impressavi dalle sue origini, lo spirito che muove più o meno consapevolmente il suo umanitarismo, la luce che nei momenti più tranquilli lampeggia e tenta di farsi largo per diradare le tenebre del materialismo, dottrina di derivazione esotica che porta all’annullamento della sua persona e della sua libertà. Come liberare questo Laocoonte sociale dalle spire di un materialismo che minaccia di soffocarlo? Bisogna anzitutto proporsi di allargare lo spazio della sua attività e dare un più vasto respiro al suo sviluppo. Economicamente parlando, le frontiere nazionali agiscono come spire di costrizione sulla circolare del lavoro, del capitale e delle merci; qui terre incolte ed abbandonate per mancanza di braccia, là formicai umani su spazi troppo angusti; qui esubero di materie prime, là forzata produzione di manufatti che non trovano mercato, e di qua e di là uno sperpero di forze per duplicazione di prodotti e mercati troppo piccoli per consentire una necessaria riduzione di costi e la produzione di massa in serie. Divieto, protezioni, contingenti, inconvertibilità della moneta inasprirono ancora una situazione già caotica, né accenniamo all’irrazionale sfruttamento delle forze energetiche difficoltato dalle barriere di tante nazioni.
Si è calcolato che nei paesi dell’Europa occidentale la capacità di acquisto è tra 1/3 e 1/4 di quella dei consumatori americani, e nelle riunioni di Strasburgo circolavano queste cifre circa la produzione del 1950: Stati Uniti con 140 milioni di abitanti, produzione 260 miliardi di dollari; paesi europei aderenti all’OECE con 240 milioni di abitanti, produzione 160 miliardi di dollari, mentre lavorando nelle stesse condizioni degli americani, gli europei avrebbero guadagnato 400 miliardi di dollari. Senza dubbio vi sono altre differenze ambientali; ma elemento prevalentemente determinante è lo spazio, cioè la dimensione del mercato. Risulta chiara anche la sequenza economica: per elevare il tenore di vita, bisogna aumentare la produzione, per aumentare questa, bisogna migliorare le attrezzature, razionalizzare la fabbricazione e soprattutto sono necessari investimenti enormi di capitale; tutto ciò è realizzabile solo se si dispone di un vasto mercato di materie, e di beni di consumo. Ecco che l’Europa diventa per l’operaio una vitale necessità di sviluppo. Non è possibile attuare la cosiddetta giustizia sociale; cioè una più equa distribuzione dei beni, in ciascuno degli spazi vitali segnati dalle presenti frontiere. Certamente nemmeno l’Europa basterà a se stessa con l’andare degli anni, ma per un prossimo periodo l’Europa unificata costituirà una potenza di lavoro e di produzione che potrà entrare in gara col continente più progredito. Così l’operaio europeo potrà acquistare qualche caratteristica positiva del sindacalista e del consumatore americano, senza perdere i connotati propri, configurati dalla sua propria storia. Tra questi connotati uno è il modo speciale di sentire la dignità della persona umana, sentimento sviluppatosi nella storia della cristianità europea, un altro è il modo particolare di valutare la libertà come legge indispensabile di tolleranza, dopo così aspre esperienze di lotte civili, infine l’attaccamento al regime democratico come quello nel quale l’operaio ha potuto dare e condurre la battaglia per la sua elevazione.
Queste concezioni spirituali e conclusioni politiche, svincolate dalla polemica regionale e nazionale, proiettate in un ambiente più vasto, illuminate da un senso storico comune, non potrebbero essere ragioni sufficienti per reclamare il pieno concorso delle forze operaie alla costruzione dell’Europa? So bene che vi sono delle opposizioni ideologiche che sembrano insuperabili, fino a che appaiono incarnate nella politica espansionistica del bolscevismo. Ma non bisogna perdere la speranza che l’Europa unitaria diventi centro di mediazione fra il capitalismo privato e il capitalismo di Stato, campo di esperimenti di cooperazione fra capitale e lavoro. Qui si superano le nazioni, senza assorbirle, ma anzi utilizzandone le forze vitali; perché non confidare che vi si superino le classi senza sopprimerle, ma coordinandole al bene comune? Perché questo spazio centrale non potrà operare fra i due blocchi, per la loro pacifica convivenza?
Vi sono poi inoltre delle diffidenze e dei sospetti che ci riguardano come cattolici. Ma già anche da settori avversi giunge il riconoscimento del disinteresse e della larghezza di idee che ispira la nostra azione. Non medioevalismo ammodernato né angustia di parte ci muove. Non chiediamo a nessuno di piegar la bandiera o di accettare pregiudiziali. Chiediamo si creda all’avvenire dell’Europa come crediamo nel destino dell’uomo di far progredire ovunque la civiltà. A noi uomini di questo continente tocca questo compito e siamo grati agli statisti di altre regioni della terra che ci comprendono e ci aiutano, nella speranza che l’unità dell’Europa diverrà un fattore essenziale della pace e del progresso del mondo. Di tale unità è elemento importante la classe lavoratrice. Senza dubbio la nazione in ogni stadio di sviluppo rimarrà la prima base di convivenza, e dentro di essa opereranno utilmente tutti i ceti, ma la classe lavoratrice in particolar modo non può trovare la sua efficace inserzione nel tessuto sociale, se esso non ha una trama più larga. Lavoriamo a questo tessuto con pazienza e costanza, anche se talvolta sembra la tela di Penelope. La nostra fatica è solo una piccola parte della immensa e diurna fatica che il mondo del lavoro sopporta nello sforzo secolare della sua elevazione.
[AADG, Esteri, III, 11 (da «Eurafrica», novembre-dicembre 1953); anche in AADG, Affari Esteri, X, a, 8 (testo dattiloscritto con correzioni autografe); pubblicato con questo titolo in De Gasperi 1979, pp. 189-198; in De Gasperi 1990b, pp. 431-436, e in De Gasperi 1999, pp. 117-125].