Articolo pubblicato sulle pagine della rivista Treccani a firma di Cesare Massa

La situazione attuale può essere visualizzata attraverso l’immagine suggestiva di una “pandemia sanitaria in una pandemia ambientale”. Questa prospettiva ha il pregio di mettere a fattor comune salute e ambiente, evidenziando l’esistenza di una molteplicità di connessioni tra i due ambiti, a partire dalla dimensione internazionale dei due fenomeni.

D’altronde, è un dato di realtà innegabile che l’emergenza sanitaria in atto sia sopraggiunta nel corso di una inedita presa di coscienza (anche nell’opinione pubblica) circa la necessaria elaborazione di una strategia ambientale improntata a un approccio multidisciplinare e condivisa al massimo grado possibile a livello internazionale. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile approvata dall’ONU nel 2015 ne è un esempio. Si tratta di un piano che aiuti nella lotta ai cambiamenti climatici ed al progressivo, incontrollato depauperamento degli ambienti naturali.

L’urgenza di un intervento è ampiamente giustificata dal potenziale impatto sull’abitabilità stessa del pianeta di disastri climatici conseguenti all’aumento delle temperature (uragani, terremoti, siccità, innalzamento del livello del mare e così via); effetti che ovviamente non si limiterebbero ad alternarsi sulla scena, ma in molti casi si andrebbero a sommare tra loro per formare scenari inquietanti. Si tratta di scenari ritenuti inevitabili, almeno all’attuale ritmo di consumo delle risorse naturali ed emissione di gas serra in generale, tanto più se questo ritmo continuerà a crescere in maniera più che proporzionale dalla seconda metà dell’Ottocento ‒ anni della rivoluzione industriale ‒ in avanti. Si prevede, infatti, che, al ritmo attuale, la temperatura potrebbe subire un innalzamento di due gradi Celtius entro il 2070. Il prodotto ‒ per certi versi inevitabile ‒ dell’erompere di una nuova pandemia globale è consistito in un progressivo ‒ auspicabilmente temporaneo ‒ spostamento di almeno parte dell’attenzione generale dalla “lotta ai cambiamenti climatici” alla “lotta al virus”, come se le due questioni fossero slegate.

Tuttavia, come già evidenziato, non si tratta di una perdita di attenzione giustificata dalla realtà. Le interconnessioni tra salute e ambiente, infatti, non sono puramente temporali ‒ cioè casuali ‒ e spaziali, ma anche (e soprattutto) logico-causali. A dimostrarlo in maniera evidente sono proprio le vicende legate alla nascita e diffusione del Covid-19. Non è infatti cosa nuova che microrganismi invisibili (quali sono i virus), causino danni alla salute collettiva su scala più o meno ampia. Da questo punto di vista, alcuni studiosi hanno ricostruito addirittura già la celebre epidemia narrata nel primo libro dell’Iliade nei termini di un’epidemia da virus.

Nella stragrande maggioranza dei casi, come ricorda la World Trade Organization nel Manifesto for a healthy recovery from COVID-19, la fonte dell’infezione è di origine animale (non solo HIV ed Ebola, ma anche la stessa la SARS-CoV-1 del 2003, antesignana del Coronavirus). In questo senso, nel caso degli Achei, la convivenza forzata di uomini e bestie sulle barche usate nella traversata per Troia può avere giocato un ruolo decisivo. In particolare, si tratta del fenomeno della cosiddetta zoonosi, per il quale alcuni virus effettuano un “salto di specie”: dagli animali all’uomo. Il WWF, in un report dal titolo eloquente, Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi, ha stimato che tra i fattori di aumento del rischio di zoonosi infettive vi sono fenomeni tradizionalmente “relegati” al solo ambito ecologico quali la riduzione degli ecosistemi l’espansione delle aree urbanizzate. Infatti, si tratta di due fenomeni che costringono gli animali (nel primo caso selvatici e nel secondo addomesticati) a una coabitazione ravvicinata con l’uomo.

Per avere un’idea delle dimensioni della riduzione degli ecosistemi, secondo la FAO, solo negli ultimi 30 anni, sono stati deforestati 420 milioni di ettari di terreni. E la tendenza non accenna a diminuire, anzi: per limitarci alla sola foresta amazzonica, nel settembre 2020 è stato registrato un incremento di più del doppio (il 61%) degli incendi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Si tratta di incendi in larga parte dolosi, finalizzati appunto al reperimento di nuova terra fertile utile per essere coltivata. Terre che nella maggior parte dei casi, come in un circolo vizioso, vengono a loro volta destinate ad agricoltura di carattere intensivo, tra le prime cause di inquinamento atmosferico e consumo di risorse idriche.

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