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Droga, la Consulta precisa i limiti della "confisca allargata" ai beni dei condannati

Roma, 7 nov. (askanews) – In caso di condanna per reati di lieve entità in materia di stupefacenti, non è costituzionalmente illegittima la previsione della confisca di tutti i beni sproporzionati rispetto al reddito di cui il condannato sia trovato in possesso e di cui non riesca a giustificare la legittima provenienza. In tal caso, non è irragionevole presumere che quei beni siano stati acquistati mediante una più ampia attività criminosa. Tuttavia, la confisca non può essere disposta se le circostanze del caso concreto inducono invece il giudice a ritenere che i beni non costituiscano il profitto di precedenti reati.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 166, depositata oggi, con la quale sono state dichiarate non fondate, nei sensi meglio precisati in motivazione, una serie di questioni sollevate dal Tribunale di Firenze sulla estensione della confisca cosiddetta “allargata” ai reati di “piccolo spaccio” operata dal decreto-legge 159 del 2023 (il cosiddetto “decreto Caivano”).

Il Tribunale doveva decidere, in distinti procedimenti, della responsabilità penale di due imputati, ai quali erano state sequestrate modeste quantità di stupefacenti destinate allo spaccio. In entrambi i casi, gli operanti avevano rinvenuto nella disponibilità degli imputati somme di denaro in contanti (circa 3.000 euro in un caso, 750 nell’altro). Queste somme non potevano essere considerate come il profitto diretto dei singoli reati di detenzione a fini di spaccio accertati, ma – in seguito all’entrata in vigore del decreto Caivano – erano divenute assoggettabili alla confisca allargata prevista dall’articolo 240-bis del codice penale. In base a questa norma, in caso di condanna per una serie di reati, il giudice deve ordinare la confisca di tutti i beni dei quali il condannato abbia la disponibilità e che risultino sproporzionati rispetto al suo reddito dichiarato, a meno che questi non riesca a giustificarne la legittima provenienza. La Corte ha ritenuto che la scelta legislativa di prevedere questo tipo di confisca anche per i fatti di “piccolo spaccio”, oltre che per i numerosi altri reati ai quali era già applicabile, non sia costituzionalmente illegittima. In particolare, la modestia dei profitti che derivano dalle singole attività di cessione o di coltivazione di piccoli quantitativi di sostanze stupefacenti non è di per sé incompatibile con il dato di esperienza, secondo cui i loro autori spesso traggono abitualmente i propri redditi proprio da quelle attività, specie quando siano privi di occupazione stabile o, comunque, regolare. Ciò rende non irragionevole prevedere, alle condizioni stabilite dalla legge, la confisca dei beni di cui essi siano trovati in possesso. Inoltre, la Corte ha ricordato che questa specifica tipologia di confisca costituisce attuazione di obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea per la generalità dei reati concernenti gli stupefacenti.

La Corte ha però sottolineato la necessità – imposta dalla Costituzione e dallo stesso diritto dell’Unione europea – di un’interpretazione restrittiva della confisca allargata. In primo luogo, il giudice dovrà accertare uno “squilibrio incongruo e significativo” tra beni dichiarati e posseduti, con riferimento al periodo in cui i beni stessi sono stati acquisiti. In secondo luogo, all’imputato dovrà essere assicurata una effettiva possibilità di contestare la presunzione di origine criminosa dei beni, attraverso l’allegazione di elementi che rendano credibile la provenienza illecita dei beni. In terzo luogo, i beni dovranno essere stati acquistati in un momento non eccessivamente lontano da quello in cui il reato è stato commesso. Infine, il giudice non potrà comunque applicare la confisca allargata “quando – alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, filtrate attraverso il contraddittorio tra accusa e difesa – il fatto di reato appaia al giudice non già espressivo di un habitus criminale dal quale l’autore abbia verosimilmente tratto profitti illeciti, ma piuttosto risulti isolato o, comunque, occasionale”.

La Corte ha ritenuto invece che non sussistano ostacoli di ordine costituzionale all’applicazione di questa confisca anche nel caso in cui il reato sia stato commesso prima dell’entrata in vigore del decreto Caivano. Infatti, la confisca allargata non ha la finalità di inasprire la pena per il condannato, ma piuttosto quella di “impedire che egli possa continuare a godere di beni da lui illecitamente acquisiti attraverso precedenti condotte criminose”. La natura della misura è, dunque, ripristinatoria, e non punitiva; il che consente di escludere che possa operare il divieto di applicazione retroattiva della legge penale.

D’altra parte, neppure potrebbe sostenersi che l’applicazione retroattiva di questa tipologia di confisca frustri il legittimo affidamento del soggetto che ne è colpito, trattandosi di beni acquistati mediante attività criminose, e dunque “mediante modalità non conformi all’ordinamento giuridico”.