E se la terza guerra mondiale (strisciante) fosse già in corso?

 

L’interrogativo che pone l’Ambasciatore Radicati muove da considerazioni storiche e politiche che non possono non suscitare apprensione. Bisogna essere consapevoli che lo scenario di guerra impone di esercitarsi attorno ai dilemmi e  alle implicazioni del conflitto russo-ucraino. Se molti paesi risultano coinvolti, e molti di essi sono anche di peso, la dinamica della guerra è mondiale. Allora, quali prospettive ci attendono?

 

Giorgio Radicati

 

I crescenti diffusi timori per lo scoppio di una terza guerra mondiale sono più che fondati poiché, di fatto, un tale conflitto potrebbe …già essere in corso. Vediamo di capire perché, grazie anche a qualche ricordo storico.

 

Dopo aver soffocato nel sangue la ribellione cecena (1999), portato a miti consigli la Georgia (2008) ed annesso la Crimea (2014), la Russia di Putin ha invaso senza validi motivi l’Ucraina sempre in nome di una pretesa unità del popolo russo ancorata territorialmente ai confini tracciati da Pietro I (sic!). Lingua e cultura di una parte, seppur nettamente minoritaria, di quelle popolazioni hanno fatto da sostegno ideologico alle iniziative militari, come pure la conclamata necessità di creare stati cuscinetti per motivi di sicurezza nazionale, ossia proteggere Mosca dall’espansione della NATO. Di fatto, Putin vorrebbe ricreare le vecchie zone d’influenza russa anche a costo di proibire ai Paesi limitrofi di scegliere liberamente l’emisfero con cui schierarsi, ritornando di fatto indietro di due secoli.

Al riguardo, giova ricordare che l’Ucraina è un paese sganciatosi già da tempo dall’orbita di Mosca, governato da una classe politica e da un presidente democraticamente eletti, fermamente avviato verso una integrazione europea con il desiderato ingresso nell’Unione, nonché deciso ad usufruire dello scudo difensivo offerto dalla NATO, di cui intenderebbe diventare membro.

 

A questo punto, una considerazione si impone. La politica espansionista di Putin portata avanti con la forza non può non riportare alla mente quanto accaduto in Europa nella seconda metà degli anni ’30, quando Hitler parlava di annessioni territoriali giustificate da radici storiche, linguistiche e culturali, nonché di “spazio vitale” per la Germania nazista, per poi scatenare la seconda guerra mondiale.

 

Alle spalle del Fuhrer c’era la Conferenza di Versailles, nel corso della quale le potenze vincitrici avevano infierito sull’impero tedesco, smembrandolo ed imponendo alla popolazione onerose riparazioni di guerra.

 

Dietro Putin (e nel ricordo da lui spesso rivangato) esiste la caduta del muro di Berlino (1989) che determinò il collasso dell’Unione Sovietica e la successiva frantumazione dell’impero socialista in tante repubbliche indipendenti, da lui vissuta come un perenne stato di frustrazione che, fin dal momento della sua elezione a presidente (2000), è sembrato volersi scrollare di dosso. Insomma, i due scenari, seppur distanziati nel tempo, per alcuni significativi aspetti, sembrano presentare una qualche significativa analogia…

 

Oggi, nessuna delle parti in campo parla di un conflitto mondiale in essere, anche se lo scenario creatosi ne presenta le più comuni caratteristiche (attacchi terrestri massicci, bombardamenti indiscriminati, spiegamento generale di forze, fornitura di armamenti, arruolamento di volontari, violazione di ogni principio umanitario, feroci repressioni, quasi due milioni di profughi, migliaia di morti e feriti ecc. ecc.), ma i fronti contrapposti lo paventano quando minacciano a turno l’impiego dell’arma nucleare, ossia lo strumento militare da utilizzare in extremis quando cioè gli armamenti convenzionali si dimostrino insufficienti per prevalere.

 

“Mutatis mutandis” – detto per inciso – la bomba atomica sarebbe, “grosso modo”, l’equivalente della famosa “arma segreta” vantata da Hitler quando la guerra stava ormai registrando la forza preponderante degli Alleati.

 

Ciò detto, la definizione di guerra mondiale non è, a stretto rigore, legata all’uso delle armi nucleari, potendo dispiegarsi con il solo impiego di armi convenzionali. Il fattore qualificante è rappresentato dal numero e dal “peso” politico e militare dei belligeranti, anche perché le minacce nucleari non sembrano destinate, fino a prova contraria, a concretizzarsi dal momento che ad un attacco atomico condotto da un belligerante farebbe subito riscontro quello dell’avversario, con risultati devastanti per ambedue (“una cosa è agire da criminali, altra è scegliere il suicidio” ha di recente osservato Zelensky).

 

In tal senso, l’attuale fase bellica vede già in campo alcuni fra i paesi più forti del pianeta, come la Russia e i paesi della NATO. La prima direttamente, mentre i secondi impegnati, almeno per il momento, nell’assistenza, anche militare, all’Ucraina e con l’adozione di una serie di severe sanzioni economiche per squilibrare l’economia russa. Ognuna è equiparabile ad un missile in grado, se non di annientare persone ed infrastrutture, di abbassare sicuramente e di molto il livello di vita della popolazione russa, soprattutto se protratta nel tempo.

 

Altre misure ostili sono già in atto sul terreno della tecnologia, tutte suscettibili di nuocere e non poco, soprattutto quelle che mirano ai sistemi di comunicazione, rendendo più difficile il funzionamento della catena di comando delle operazioni militari (e non solo) ed isolando praticamente un intero paese dal resto del mondo.

 

In termini di partecipazione al conflitto, altre potenze ne sono ancora fuori, ma è lecito domandarsi se non stiano soltanto scaldando i muscoli, in attesa del momento propizio per entrarvi. Esempio significativo è la Cina, ormai riconosciuta indiscutibile potenza egemone, che, pur dimostrando una generica disponibilità a fungere da mediatore, ha dichiarato che Stati Uniti ed Unione Europea dovrebbero “onestamente esaminare con Mosca le problematiche derivanti dall’espansione della NATO verso Est” e ha voluto chiarire, senza mezzi termini, che l’amicizia con la Russia continua “solida come la roccia”.

 

Non sembrano affermazioni idonee per svolgere una attività di mediazione, mostrando la mancanza di un requisito essenziale, ossia l’equidistanza fra le parti in conflitto o, meglio ancora, la condizione “super partes”. C’è allora da chiedersi da quale lato, se proprio messo alle strette, quel Paese si schiererebbe? Insomma, quale è in questa partita il vero gioco di Pechino?  E la risposta non è scontata.

 

Il recentissimo voto di condanna dell’invasione russa espresso dall’Assemblea delle Nazioni Unite (in sessione straordinaria per la prima volta dopo quaranta anni!) ha certificato l’esistenza di un consistente fronte anti Putin rappresentato da 141 stati, tra cui tradizionali alleati di Mosca come la Serbia e paesi come Libia ed Egitto notoriamente sotto l’influenza russa. Significativa anche l’astensione, tra gli altri – trentacinque in tutto – di Cina, India, Pakistan, Vietnam, Iran e Sudafrica. Quasi scontati, e per questo irrilevanti, i voti contrari di Corea del Nord, Eritrea, Siria e Bielorussia. In conclusione, lo scenario per un eventuale allargamento bellico è già predisposto e la Russia vi appare isolata.

 

Ciò detto – ripeto – nessuno parlerebbe apertamente in questa fase di un conflitto mondiale in corso e questo perché nessuno ha interesse a farlo. E ciò per vari motivi, primi fra tutti il rischio di assumersene la responsabilità esclusiva, il desiderio di non allarmare per motivi propagandistici l’opinione pubblica e, infine, la volontà di non chiudere definitivamente la porta alle residue possibilità negoziali sul tappeto. Risulta per tutti, ma soprattutto per Putin, più vantaggioso paventarlo. Non a caso, la Russia, che ha iniziato le ostilità, ha definito (e continua a definire) il suo intervento una “speciale missione militare” …

 

Oggi sostanzialmente il depotenziamento del conflitto resta legato alla volontà, capacità e possibilità negoziale di ognuna delle parti in causa ed in questo esercizio anche l’Europa dovrebbe essere presente. La tattica di Putin è ormai nota, quella del giocatore d’azzardo, e consiste nell’alzare continuamente la posta, facendo credere di essere pronto a tutto, anche all’impiego delle armi nucleari.

 

Zerensky, dopo aver sollecitato invano l’intervento diretto della NATO, punta ad un compromesso onorevole, operando sul piano delle minori concessioni possibili e sperando che gli appetiti di Mosca diminuiscano strada facendo per le difficoltà militari incontrate sul campo e le crescenti sollecitazioni della Comunità Internazionale, anche sull’onda del recente voto di New York. Quanto alla NATO e, di riflesso, all’Unione Europea, le due organizzazioni continuano a sostenere l’Ucraina dall’esterno in tutti i modi possibili, economici e militari, nella consapevolezza che dall’esito di questa guerra dipenderà il nuovo assetto geo-politico ed economico del continente e le correlate scelte di fondo. Il loro coinvolgimento negoziale, come detto, è oltremodo auspicabile.

 

In prospettiva, si ergono gli Stati Uniti, il tradizionale convitato di pietra di ogni negoziato in grado di mutare gli equilibri politici del pianeta e i termini della sicurezza globale. Putin (con i suoi potenziali alleati) sa bene che, qualunque sia la conclusione della sua “speciale missione militare” in Ucraina, verrà il momento di fare soprattutto i conti con Washington. Allora, la domanda che sorge spontanea è: saprà l’apparentemente fievole Biden – se e quando sarà il caso – scoprire il “bluff” di Putin e/o emulare il predecessore Ronald Reagan che, nella seconda metà degli anni ’80 del XX° secolo, inventandosi in pratica lo “scudo spaziale”, costrinse l’interlocutore russo ad accelerare sugli armamenti, contribuendo così al collasso, prima finanziario e poi politico, del regime sovietico?