Il federalismo organico della Germania e il federalismo a geometria variabile dell’Italia mettano a nudo, nell’attuale emergenza da coronavirus, l’ordito di procedure complesse che generano inefficienza nei rispettivi ordinamenti istituzionali.
In questi giorni, per parlare di casa nostra, si registra sul territorio la pericolosa tentazione del “fai da te”, magari nella presunzione dei più intraprendenti di fare meglio degli altri: casi isolati, per fortuna, ma non innocui.
Il problema che si addensa sui poteri locali – Comuni, Province (benché ridotte a simulacro) e Regioni – riguarda il rischio della dissipazione di un grande patrimonio di politica e cultura.
Le performance di Fontana e Zaia hanno fornito la misura di quanto sia ipertrofico e sconclusionato il regionalismo “a trazione leghista”, fonte di imbarbarimento del profondo nord.
Ma non basta. Vengono al pettine i nodi di un modello di “democrazia locale” che in questi ultimi 25 anni ha alimentato troppe illusioni. Colpa anche della elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione, da cui è dipeso lo svilimento delle assemblee elettive e di conseguenza il declino della partecipazione popolare.
Ora, invece di esercitare con disciplina le loro competenze, se non altro per trasmettere ai cittadini un messaggio di compostezza dinanzi alle direttive del governo, alcuni “pubblici ufficiali” danno fondo al narcisismo.
Gori, il primo cittadino di Bergamo, ha dovuto scusarsi pubblicamente per una dichiarazione avventata sulla gestione dell’emergenza sanitaria.
Gli ultimi segnali sono sconfortanti. Ieri si sono riuniti in video conferenza i cosiddetti Sindaci metropolitani, l’oligarchia che domina (e soffoca) l’Associazione dei Comuni. Proposte zero. L’unica vera preoccupazione, verbalizzata a chiusura dell’incontro, è stata quella di battere cassa presso il governo.
Questo è un quadro che non esalta la vitalità del Paese. In altri momenti il contributo delle autonomie locali è stato improntato a uno spirito diverso, mediamente più costruttivo. Almeno si usava la lingua italiana, mentre oggi si parla di lotta al “coronaro virus” (copyright del Sindaco di Boscoreale!).
La riforma del ministro De Lorenzo, esponente di quel Partito liberale che aveva votato contro nel 1978 la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, nei primi anni ‘90 ha esautorato (e deresponsabilizzato) le autonomie locali in forza di una sconsiderata regionalizzazione del governo della salute pubblica.
L’Anci dei Sindaci superstar, piegata alla politica-spettacolo, non ha saputo reagire adeguatamente, causa l’appassionato e pressoché esclusivo concentrarsi su argomenti di più facile sponsorizzazione.
Ad ogni buon conto, ci sono esempi di altra consistenza morale e politica. Migliaia di amministratori locali prestano il loro servizio con serietà, lontani dai riflettori, costituendo silenziosamente una riserva di credibilità e di speranza. Operano con passione e intelligenza, dimostrando che la preparazione non è un requisito secondario del buongoverno.
Comunque, è proprio dai Comuni che l’Italia deve ripartire, contando sull’avvento di una nuova generazione di Sindaci e amministratori locali, possibilmente più consapevoli della delicatezza delle funzioni e delle responsabilità che ricadono sulle loro spalle.
Il Comune è la palestra della democrazia, il luogo dove si manifesta la vocazione al servizio della comunità. Non deve trasformarsi nel piedistallo di nessuno, nemmeno del “primo delegato” della comunità locale.
Se domani dovesse rinascere un partito d’ispirazione cristiana, di certo sarebbe suo l’obiettivo, nel solco del municipalismo sturziano, di rimettere necessariamente a fuoco l’idea di “Repubblica delle autonomie” che la Costituzione innalza a principio ordinatore.