Carmine Trecroci
Un recentissimo studio del Fondo Monetario Internazionale documenta l’importanza relativa delle principali componenti dell’inflazione nell’area dell’euro. Nel periodo tra l’inizio del 2022 e la prima parte di quest’anno, ad incrementi dei prezzi dei beni importati è imputabile circa il 40% della fiammata inflattiva, ai profitti il 45%. L’aumento di questi ultimi è stato più alto nei settori che hanno visto i maggiori incrementi nei prezzi internazionali dell’energia e delle materie prime.
L’indagine mostra pure che le imprese sono riuscite a trasferire ai prezzi dei beni più del 100% dell’aumento dei costi; i compensi dei lavoratori hanno avuto finora un peso molto più limitato nella dinamica inflattiva. Il ritardo relativo di salari e stipendi rispetto ai profitti è una tendenza ben nota. Le retribuzioni dei lavoratori europei nel 2022 hanno perso mediamente il 5% del potere d’acquisto (8% in Italia), e anche per questa ragione le loro richieste salariali si stanno facendo più ambiziose.
Se le imprese non sterilizzeranno con minori profitti questo ulteriore aumento dei costi, l’inflazione potrebbe restare elevata anche nel 2024-25. Avvicinarla a livelli più tollerabili potrebbe quindi diventare più costoso, cioè richiedere tassi di interesse ancora più elevati di quelli odierni, politiche fiscali restrittive e sacrifici notevoli in termini di mancata crescita della produzione e dell’occupazione. A medio-lungo termine, a causa della lentezza della transizione energetica e della fragilità delle filiere produttive globali, i rischi inflattivi potrebbero restare elevati.
Per il nostro Paese un problema in più: la crescita della produttività è ancora più blanda che nel resto d’Europa, il che rende più arduo recuperare il potere d’acquisto delle retribuzioni e contenere gli effetti delle recessioni. Le imprese europee sono riuscite meglio dei lavoratori a proteggersi dagli effetti degli shock di costo. In Italia questo divario è più accentuato, confermando come ci siano consistenti distorsioni anticoncorrenziali in diversi settori della nostra economia, a partire dalle forniture energetiche e dai servizi.
Per moderare le spinte inflattive il Governo potrebbe attuare veloci interventi per modernizzare questi settori, accelerare la transizione ecologica e migliorare la produttività. Diversamente, resterebbero solo i minacciati rialzi dei tassi di interesse da parte della BCE, che oggi vengono tanto stigmatizzati.
[L’autore è professore di economia, Università di Brescia]
Fonte: La Voce del Popolo – 13 luglio 2023
Titolo originale: Economia. Chi modera l’inflazione?
Articolo qui riproposto per gentile concessione del direttore del settimanale della Diocesi di Brescia.