L’illusione del “ritorno alla normalità”
Sono in molti, fra gli europei, a considerare la nuova presidenza Trump come un periodo transitorio di difficoltà nel rapporto fra alleati sancito, ormai 80 anni fa, dalla Carta Atlantica. E a immaginare che alla sua conclusione, o finanche un poco prima, tutto tornerà come una volta. Ma non sarà così, anche nella sospirata ipotesi del ritorno di un democratico alla Casa Bianca. Anche nell’eventuale approdo a Pennsylvania Avenue di Marco Rubio, un repubblicano iper-conservatore ma ancora tradizionale, e quindi affezionato all’alleanza occidentale. Certamente no se dovesse vincere le elezioni del 2028 l’attuale vicepresidente, avversario dichiarato del Vecchio Continente.
Qualcosa di grosso è accaduto negli Stati Uniti d’America e i suoi effetti negativi per gli europei possono senz’altro dispiacere, molto, a quanti di noi hanno sempre mostrato riconoscenza per il contributo decisivo che i soldati a stelle e strisce fornirono per sconfiggere il nazismo, orrendo cancro incistato sul corpo del nostro continente. E hanno sempre visto negli USA un presidio di libertà e democrazia, oltre che di inarrestabile voglia di futuro e di capacità di costruirlo: nelle scienze, nella tecnologia, nello sport, nelle arti. Anche a costo di non vederne, o di sottovalutarne – sbagliando – gli eccessi capitalistici o le profonde cicatrici non rimarginate del tutto dovute alla questione razziale.
Un’Europa sociale più avanzata ma militarmente dipendente
Cantori e amanti dell’American Way of Life in realtà noi qui in Europa abbiamo saputo costruire un modello sociale più avanzato e più equo, invidiabile da chiunque nel mondo. Ma per riuscirci ci siamo avvalsi in misura non certo irrisoria delle risorse americane poste attraverso la NATO nel comparto Difesa. Un investimento – redditizio per altri versi, ma comunque obiettivamente anche oneroso – che gli Stati Uniti avevano tutto l’interesse a garantire sintanto che il confronto mondiale fosse rimasto quello con l’Unione Sovietica ma che si sarebbe mostrato troppo pesante nel momento in cui le cose fossero cambiate.
Dalla fine dell’URSS all’emersione della Cina come player planetario di primaria potenza sono trascorsi vent’anni – i Novanta dello scorso secolo e gli Zero di questo – che hanno completamente mutato lo scenario, convincendo nel tempo gli americani che l’onere atlantico era divenuto eccessivo. A maggior ragione dopo la decisione strategica denominata “Pivot to Asia”, che mutò le priorità oceaniche di Washington, spostandole nel Pacifico.
Da Obama a Trump: lo scacco di Bruxelles
Così, fu già Obama a reclamare un contributo europeo maggiore di quello, minimo sin lì, versato per garantire il funzionamento dell’Alleanza Atlantica. Il primo Trump e così pure il suo successore Biden rinnovarono la richiesta. Senza ottenere molto, però. Ora il secondo Trump non solo l’ha ribadita con tono ultimativo, ma l’ha quasi triplicata nell’importo. Portando a casa il risultato, questa volta.
Gli europei hanno dovuto chinare il capo, consapevoli di non essere in grado di difendersi da soli. Colpevolmente non hanno affrontato il tema per tutti questi anni di pace. Hanno compreso solo dopo mesi di eroica difesa del popolo ucraino che les cose dal febbraio 2022 erano cambiate. Forse per sempre, certamente ora e per un bel po’. È stato Putin a dircelo, con le parole, alla Conferenza di Monaco del 2012 e poi con una lunga intervista al Financial Times nel 2019; e con i fatti, in Crimea nel 2014 e nel Donbass appunto nel 2022.
Putin e Trump: la convergenza dell’anti-Europa
Sia Putin sia Trump detestano l’Europa. Non la vogliono vedere unita, for ragioni prevalentemente di business il primo, soprattutto di natura geopolitica il secondo. Preferiscono rapporti bilaterali con le singole nazioni, evidentemente più deboli, meno competitive.
Per gli USA di oggi i singoli paesi sono ancora degli alleati, ai quali far pagare la partecipazione alla NATO, con i quali realizzare buoni affari (“buy American”), ma tutto sommato ancora alleati. La UE no, la UE è un avversario.
Per la Russia l’Unione è un nemico, mentre le singole nazioni potrebbero essere se non amiche almeno buoni partner commerciali. E per questo favorisce con i mezzi oggi resi possibili dalla tecnologia digitale il crescere del sovranismo populista ovunque possibile. Individuando le realtà più permeabili, e l’Italia è una di queste.
Un vuoto di leadership che costa caro
In questa condizione occorrerebbe un sussulto di dignità, unito alla consapevolezza che per troppo tempo si è delegata la nostra sicurezza agli americani e che dunque bisogna ora provvedere da soli, unitariamente.
Ma paiono assenti leader in grado di innescare un cambio di passo. E l’unico che forse potrebbe riuscirci, Mario Draghi, è confinato ai margini, autorevole relatore in qualche convegno e nulla più.
In questa assenza cresce lo spazio per i cantori del nazionalismo antiunitario. Con grande soddisfazione di Trump. E di Putin.

