Ho trascorso i due anni che vanno dalle celebrazioni per il 60° dei Trattati di Roma (2017) alla campagna elettorale per il Parlamento Europeo del 2019 facendo moltissimi incontri di presentazione del mio libro Europa al bivio. In ognuno di essi, o quasi, ho ripetuto come un mantra, e sempre più insistentemente man mano che si avvicinava la scadenza elettorale, una semplice previsione (che in sé recava un auspicio): nel corso della prossima legislatura europea o la UE farà dei passi in avanti significativi verso una maggior empatia nei confronti dei suoi cittadini, verso una politica estera e di difesa comune, verso una comune politica fiscale, verso una politica economica e di bilancio coordinata e tesa a salvaguardare i principi di prudenza nella gestione dei conti ma anche gli obiettivi di convergenza sociale fra i diversi Paesi dell’Unione o imploderà.

Ecco, ci siamo.

Un evento esterno imponderabile pone gli Stati europei innanzi alla scelta che comunque si sarebbe dovuta compiere: una maggior solidarietà e comunanza oppure una rinnovata ostilità nazionalista. Le classi dirigenti politiche non si esprimeranno mai in questi termini, naturalmente. Ma questo è il pensiero dei cittadini europei, che si sta imponendo in ogni Paese. Lo si avverte distintamente, perché sta incuneandosi anche presso quelli di loro più inclini a comprendere i vantaggi possibili dell’Unione, più sensibili all’ideale federalista, più attenti alla geopolitica e alle sue implicazioni. Un sordo risentimento prossimo a trasformarsi in rivolta. Con una differenza rispetto a pochi mesi fa: mentre prima questo sentiment era legato alla constatazione che su quasi ogni dossier – forse escluso quello ambientale – i progressi erano minimali se non inesistenti ora la valutazione è secca: o ci si aiuta, tutti insieme, o ciascuno farà per conto proprio. Il corollario di questa affermazione è: cercandosi aiuti autonomamente in altre parti del mondo.

Si capisce bene a cosa questi ragionamenti dettati, oggi, dall’emergenza sanitaria ma domani – speriamo di no, ma il rischio c’è, e forte – dalla disperazione economica potrebbero condurre: pulsioni nazionaliste esasperate (che l’Europa ha già conosciuto nella sua lunga storia di conflitti) e rovesciamento di consolidate alleanze politiche figlie di un mondo ormai lontano e superato dagli eventi. Anche la comunità europea – rimasta per troppo tempo mera comunità di mercati senza sapersi evolvere in unione politica – sarebbe in quel caso percepita come un’eredità invecchiata e inattuale di quei tempi superati.

Ora la discussione è imperniata sulle modalità e l’entità dell’immane piano economico-finanziario che dovrà sostenere famiglie e imprese durante e dopo la pandemia. In modo particolare, sull’eventuale emissione di Eurobond perorata da diversi Paesi, rigettata da molti altri. Su questo crinale l’intera costruzione comunitaria potrebbe crollare. E la voce autorevole e preoccupata di uno dei suoi padri nobili, Jacques Delors, ce lo dice in termini espliciti: “La manque de solidarité est un danger mortal pour l’Europe”.

Questa divisione anche di fronte ad una tragedia quale l’epidemia virale da un lato testimonia la cecità della politica, o forse meglio dire l’inesistenza di una politica europea, e dall’altro sviluppa e amplifica il ridicolo teatrino intorno al prossimo bilancio settenale europeo cui si è assistito solo poche settimane fa. Un bilancio totalmente inadeguato ieri, figurarsi domani, ruotante intorno, decimale più decimale meno, all’1% del prodotto nazionale lordo dei Paesi UE, a proposito del quale i capi di governo hanno litigato non riuscendo a coprire, tutti insieme i Ventisette, la cifra che era di competenza della Gran Bretagna (peraltro ora anche i tempi di Brexit torneranno ad allungarsi, ma questo è un altro discorso).

Epperò.

Epperò non si può sostenere, semplicisticamente, che la UE non abbia fatto nulla, non stia facendo nulla. Anzi, proprio nel momento in cui giustamente si drammatizza la polemica circa il suo possibile futuro per dar forza alle richieste solidali, occorre saper riconoscere e apprezzare le notizie positive. Che non sono banali. Il famoso Patto di Stabilità è stato sospeso. Così pure è stata modificata la normativa sugli aiuti di Stato, consentendo interventi prima impossibili. E, soprattutto, la Banca Centrale Europea (sì, ancora la BCE: che però non esisterebbe se non esistesse la UE) ha ripreso in mano il bazooka (al di là degli errori comunicativi, gravi ma poi rimediati con i fatti, della Lagarde) chiamato Quantitative Easing giungendo a comprare 220 miliardi di titoli di Stato italiani. Una cifra enorme che l’Italia potrà utilizzare per finanziare il suo deficit.

Tutto bene, dunque? Certo che no. Gli Eurobond, con la possibilità di raccogliere risorse sui mercati finanziari mutualizzando il rischio, sono certo un obiettivo da conseguire. Ma dire che non è stato fatto nulla significa solo dare fiato alla propaganda sovranista. 

Al di là e oltre tutti questi ragionamenti, resta in ogni caso una questione di fondo. Ed è che tuttora è assente, sia presso i cittadini sia presso una ancora troppo ampia fascia di classe dirigente, la consapevolezza di quanto azzardato sia immaginare di affrontare il mondo globalizzato con la piccola taglia degli Stati nazionali. 

Ascolto ora al telegiornale che la Francia ha ordinato un miliardo di mascherine. Alla Cina. Che non si è mi fermata tutta. E che ora sta ripartendo anche nella provincia all’origine della tragedia che stiamo vivendo. Tutti in fila indiana a Pechino, allora? O magari non sarebbe meglio impiantare un’industria europea che produce presidi medico-sanitari, mascherine incluse?