Bisognerebbe fare uno sforzo collettivo di verità, contro le ipocrisie. Altrimenti la politica non recupera la sua credibilità e la sua dignità.
Noi popolari (dispersi, diasporati, micro organizzati, molecolari, in sonno e via dicendo) dovremmo comunque provare a battere qualche colpo al riguardo. Senza farci condizionare dalla dittatura dei sondaggi e dall’ansia, imperante, del consenso immediato. Del resto, cosa avremmo da perdere?
Questo sforzo di verità e di rifiuto delle ipocrisie – assieme ad una tensione radicalmente innovativa di fronte ai nuovi paradigmi dell’attuale fase storica – mi sembra essere l’unico terreno di “riconoscibilità” per un percorso possibile (benché arduo) di aggiornamento della nostra cultura politica e di reinterpretazione delle sue radici di servizio alla comunità.
Per esempio, ma è appunto solo un esempio. Dovremmo chiedere senza esitazione una procedura urgente di regolarizzazione delle migliaia e migliaia di stranieri stabilmente residenti in Italia ma ufficialmente “sconosciuti” al sistema pubblico.
Da anni non si fa. E da anni non vengono attivate le procedure per definire quote di ingresso regolare di lavoratori stranieri.
Ma è bastato il Coronavirus per disvelare ciò che tutti sapevamo ma non volevamo dire: senza i lavoratori stranieri (regolari o irregolari che siano) il nostro sistema produttivo e dei servizi si blocca.
Il “compromesso dell’ipocrisia” prevede porti ufficialmente bloccati; quote di ingresso regolare non attivate; lavoro nero diffuso e implicitamente accettato (salvo rare operazioni di polizia più che altro ad uso propagandistico); espulsione degli irregolari dalle prestazioni pubbliche di accoglienza (vedasi i ben noti Decreti dell’ex Ministro degli Interni), ancora sostanzialmente in vigore.
Ipocrita è anche la soluzione che pare prevalere dentro una parte della attuale maggioranza di Governo: siccome questi disgraziati (che ufficialmente non esistono) ci servono per queste emergenze lavorative, sopratutto in campo agricolo, facciamo un provvedimento di sanatoria “a tempo”. Cioè, valido per i mesi o le settimane che servono agli imprenditori agricoli. Poi, tutto torni come prima: questa gente non esiste, non è più censita nel novero delle “persone” che vivono in Italia. E chi se ne importa se tutto ciò – oltre che diminuzione del grado di civiltà del nostro Paese – crea ancor più insicurezza, rischio sanitario, degrado sociale e iniquità? Al massimo si procederà a qualche rimpatrio simbolico (ormai è assodata la insussistenza di qualsiasi minima condizione organizzativa e giuridica per rimpatri massicci) o a qualche sgombero di un paio di baraccopoli tra le tante presenti sopratutto al Sud. Salvo non occuparsi di un piccolo problema: dove finiscono gli sgomberati?
Ma – dice il benpensante (sic!) Crimi e sostengono molti tra i grillini e non solo – se pensiamo ad una regolarizzazione con le forme e la dimensione che la realtà richiederebbe, facciamo un “favore” a Salvini. Argomento da bar.
Dovremmo aver ormai imparato (dalla cronaca di questi ultimi anni, se non dalla Storia) che fare una politica di destra per togliere potenziali voti alla destra porta semplicemente al suicidio identitario, morale, politico ed elettorale di chi destra non è. E non aiuta chi, dentro la società – e sono tanti – difronte ad una posizione seria, pragmatica, credibile sarebbe disposto ad assumere opinioni e atteggiamenti di lungimiranza e di responsabilità.
Certo che se la politica non esercita la sua funzione di guida e di orientamento, prevale il declino ideale e si fanno strada le fake news dei nemici alle porte ed anzi ormai dentro le mura.
Al Paese servono “politici”, non “politicanti”. E, per capirlo, in questo caso come per altri, non dovrebbe essere neppure necessario citare Degasperi e la sua famosa frase sul pensiero rivolto alle nuove generazioni e non alle prossime elezioni. O ascoltare le parole di Papa Francesco. Basterebbe leggere quanto scrivono economisti preparati e indipendenti come Tito Boeri.