Foschi presagi sul futuro del Partito democratico di Roma

Sembra che il Pd capitolino preferisca l’immobilismo politico. Resta da capire se un sindaco debole possa trarre vantaggio dall’elezione di un segretario debole.

Sono in corsa le operazioni congressuali che culmineranno con l’assemblea del 13 luglio nella quale si eleggerà Enzo Foschi segretario del Partito democratico di Roma. Il dato non scaturisce da sondaggi o exit poll, ma dalla constatazione del fatto che il congresso si articola attorno ad un’unica candidatura, quella  dell’ex comunista, radicato storicamente nella mitica Garbatella rossa, che risponde appunto al nome di Foschi. Al pari di Daniele Leodori, consacrato qualche settimana fa segretario regionale, l’uomo della Garbatella appartiene allo schieramento che alle primarie ha sostenuto Elly Schlein. Vicino a Nicola Zingaretti, si è distinto negli ultimi dieci anni come tutore organizzativo della base “de sinistra” che oggi rivendica il controllo del partito romano. Non ha un programma, né un “sogno” da condividere nel silenzioso frastuono della compagine Dem. Il suo compito, presumibilmente, è quello di innervare di retorica l’immobilismo che gli richiede un gruppo dirigente a corto di motivazioni, senza un anelito di progettualità politica.

Di questi tempi, esattamente il 6 luglio di 50 anni fa, si poteva leggere un trafiletto su “Il Popolo”, quotidiano della Democrazia cristiana, che annunciava la convocazione del Comitato romano. Il secondo punto all’ordine del giorno prevedeva un esame della situazione urbanistica, con relazione introduttiva del sindaco Clelio Darida. Non era un fatto formale. La maggioranza alla guida del Comitato romano contemplava l’apporto della componente fanfaniana – quella rappresentata a Roma da Darida – ma essa non era centrale. L’uomo forte del partito era Amerigo Petrucci e lui, Petrucci, a nome del partito ancorava l’operato della squadra capitolina alle ragioni e alle volontà degli organi dirigenti di Piazza Nicosia (sede della Dc romana). Il sindaco, in quel torno di tempo, doveva spiegare cosa stesse maturando sull’urbanistica. Altra epoca, si dirà, e altro sentiment: nessuno poteva immaginare, nel cuore della Prima repubblica, che quella rivendicata primazia di partito non fosse legittima, anzi giusta.

Invece oggi i partiti sono un ameba a confronto dei partiti di un tempo. Anche Gualtieri, sindaco umiliato per la sconfitta a Roma del suo Bonaccini, non ha il controllo del partito. L’accordo in chiave sovietica sul candidato unico alla segreteria maschera in qualche modo una situazione antipatica, foriera di ripercussioni sulla pubblica opinione. In breve, la scelta di Foschi è la conferma della condizione di minoranza in cui versa il “commander in chief” del Campidoglio. 

Malgrado ciò, a sua tutela sta l’inconsistenza politica del segretario in pectore. Immaginare che Foschi possa convocare il sindaco per discutere di urbanistica – tanto per rimanere nel solco di quanto avvenne in casa Dc nel 1973 – è perlomeno azzardato. Foschi non ha la forza neppure di pensarlo, uno scenario così complesso, e se anche lo pensasse troverebbe l’immediata resistenza dell’oligarchia interna.  Resta da capire, però, se un sindaco debole possa trarre conforto dall’elezione di un segretario debole. Non era meglio sfidare il correntone romano della Schlein, e dunque la Schlein in prima persona, sulla individuazione di un candidato autorevole, capace di padroneggiare la sfida  del cosiddetto “nuovo Pd”? Gualtieri se lo dovrebbe chiedere. In realtà, la politica non va mai in vacanza.