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mercoledì, Febbraio 12, 2025
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Gaza, è tregua: niente di più, ma meglio di niente.

L’accordo, per quanto assai complesso e quindi con il rischio di violazioni sempre incombente, consente ai presidenti USA di prendersene il merito, certo con il diverso stile dei due.

Come qui abbiamo scritto l’atteso accordo di tregua a Gaza fra Israele e Hamas è arrivato giusto alla vigilia dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Non era una previsione difficile, peraltro. E comunque la notizia è positiva e come tale va accolta. Oltre 450 giorni di guerra hanno portato alla morte di quasi 50.000 persone, al ferimento di altre decine di migliaia, allo strazio della vita di tutti i palestinesi residenti a Gaza e alla sua quasi totale distruzione. Israele ha continuato a bombardare la Striscia sino a ieri, per infliggere quanti più danni possibile al nemico: ne sia prova, ad esempio, l’attacco portato il 27 dicembre all’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia nel nord della Striscia, che era ancora operativo e invece ora è stato costretto a chiudere.

L’accordo, per quanto assai complesso e suddiviso in tre fasi e quindi con il rischio di violazioni sempre incombente e dunque di una sua deflagrazione, consente oggi ai presidenti USA di prendersene il merito, certo con il diverso stile dei due: quello in carica ma uscente ha detto che è stata la trattativa più difficile della sua pur lunga esperienza politica e che nella fase finale l’Amministrazione ha lavorato congiuntamente e fattivamente con quella che entrerà in carica la settimana prossima; quello eletto si è invece preso lui tutto il merito, sostenendo che è stata la sua vittoria elettorale e quindi il suo prossimo approdo a Washington a creare le condizioni indispensabili per il raggiungimento dell’accordo.

Lo sceicco al-Thani, il mediatore qatariota, ha potuto manifestare la propria giusta soddisfazione, dopo mesi di snervante lavoro condotto con determinazione ma non senza cadute di fiducia ogni qualvolta le speranze venivano distrutte dall’intransigenza dei contendenti, e soprattutto dalla volontà israeliana di vendicare duramente l’oltraggio subìto il 7 ottobre. 

Ma i due nemici addivengono alla tregua mantenendo un sentimento di astio reciproco, e non potrebbe essere altrimenti. Quindi siamo, per ora, solo di fronte all’interruzione della guerra e certo non ancora alla pace, che chissà se mai arriverà dopo tanto odio seminato.

Comunque, rimanendo alla notizia di queste ore, la domanda che sorge è perché Netanyahu ha ceduto alla pressione di Trump dopo aver resistito per mesi a quelle di Biden. La risposta è semplice, naturalmente: perché il secondo aveva innanzi a sé pochi mesi al potere mentre il primo adesso ne ha ben quarantotto. Ma non è solo questo. Il premier israeliano – che ora deve reggere all’urto dell’estrema destra ultrareligiosa – confida, anzi ne è certo, nella durezza di Trump nei confronti dell’Iran, che è il vero nemico di Israele, quello da isolare e indebolire assolutamente. E naturalmente è ben consapevole che senza il sostegno statunitense non potrebbe imporre nella regione la sua netta superiorità militare.

Trump, però, se da un lato ha certo Teheran nel mirino, dall’altro ritiene che nello scacchiere mediorientale è fondamentale non solo l’alleanza con lo stato ebraico bensì pure quella con l’Arabia Saudita: e quindi forzerà Riad ad entrare negli Accordi di Abramo, e se per convincerla Israele dovrà pagare qualche prezzo, ebbene lo dovrà pagare. A Netanyahu il messaggio è stato recapitato. Forte e chiaro.