Seconda fase dell’accordo per il cessate il fuoco a Gaza. La tentazione sul fronte israeliano è evidente: riprendere a martellare la Striscia, nella consapevolezza – non ammessa ma presente – che Hamas c’è ancora. Lo ha voluto dimostrare con le provocazioni esibite ad ogni consegna di ostaggi in queste sei settimane; nuovi militanti hanno in parte preso il posto di quelli morti, e non avrebbe potuto essere diversamente con tutto l’arsenale d’odio causato dalla distruzione attuata dagli israeliani nei confronti della popolazione civile; la guida del movimento è stata assunta da Mohammad Sinwar, fratello del defunto Yahya e non meno sanguinario e temerario. Sono ancora migliaia i terroristi e hanno tuttora una buona presa (quanto forte, non lo si sa) su una popolazione orgogliosa ma atterrita, disperata.
Quello che però Netanyahu esattamente non sa è quanto l’imprevedibile presidente americano sia disposto a supportarlo in un eventuale cammino di guerra: per dire, ieri ha sostenuto la proposta dell’inviato USA Steve Witkoff per un’estensione della tregua fino alla conclusione del Ramadan e della Pasqua ebraica; oggi ha invece minacciato di impedire l’accesso alla Striscia dei camion che trasportano il cibo se Hamas non consegnerà nuovi ostaggi e lo ha detto precisando di avere avuto l’ok di Trump. Quindi la situazione è in piena evoluzione, giorno dopo giorno.
Al di là però della disgustosa rappresentazione prodotta dall’intelligenza artificiale e condivisa sul proprio social network da Donald Trump, talmente riprovevole da essere stata rigettata da chiunque, nel mondo arabo e non solo, l’impressione è che effettivamente il tycoon desideri una pacificazione dell’area con il rilancio degli Accordi di Abramo sino all’inclusione in essi dell’Arabia Saudita. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre trovare una qualche soluzione accettabile per tutti alla questione palestinese.
Non facile, quando al contrario Israele mira a stringere ulteriormente la sua presa anche in Cisgiordania, sia per motivi di politica interna, sia per dar sfogo alle sempre più incontenibili pretese dei coloni, sia per cogliere il momento – favorevole a Tel Aviv – e rafforzare la propria presenza in un territorio che, fra le altre cose, confina in parte con una Siria ove – pur in un futuro assai incerto per ora – sono arrivati al potere ex terroristi jihadisti.
E infatti Israele ha distrutto larga parte dell’arsenale bellico del vecchio regime e occupata una zona cuscinetto sul monte Hermon. Mantenendo l’allarme molto alto, anche perché se da un lato Damasco non è più, come era diventata con Assad ormai da anni, dipendente per intero da Teheran, dall’altro è ora forte l’influenza di Qatar e Turchia, che hanno aiutato Hayat tahrir al Sham (HTS) a detronizzare il dittatore ma che, pure, sono alquanto vicini ad Hamas.
La preoccupazione di Israele sulla Siria è alimentata anche dalle incognite sul futuro prossimo perché sono numerosi i problemi, non certo di facile soluzione, che la nuova dirigenza del paese deve affrontare.
C’è la questione dei curdi, che occupano il nord siriano e gestiscono i campi dove stanno reclusi membri dell’ISIS con le loro famiglie, e che al tempo stesso sono però invisi ai turchi, che vogliono sbarazzarsene definitivamente a maggior ragione ora che il loro partito, il PKK, concluderà la sua esistenza, secondo la recente dichiarazione del suo leader e fondatore Abdullah Ocalan. E poi ci sono i rapporti di forza, e conseguentemente di potere, fra i diversi gruppi che hanno cooperato con HTS alla trionfale avanzata di dicembre sino a Damasco. Il pluralismo religioso, altro tema fondamentale, è stato sinora garantito ma le minoranze non si sentono tranquille e vivono in una condizione di incertezza che non favorisce il loro apporto, indispensabile per il rilancio del paese. Un paese distrutto, ridotto alla fame e da ricostruire anche sul piano gestionale-amministrativo: dunque la necessità primaria, assoluta e urgente, è quella di rimettere in piedi la Siria e dar da mangiare a tutti i suoi cittadini. E a questo fine il leader Ahmad Husain al-Sharaa dovrà trovare il modo di interloquire positivamente con il mondo occidentale oltre che con quello arabo, ma questo non gli sarà molto facile, proprio a causa di Israele, a meno di clamorosi cambiamenti di valutazione sullo stato ebraico da parte di HTS e di tutto il futuro governo.
Il rebus mediorientale resta lontano dall’essere risolto.