“Abbiamo rinunciato a morire democristiani, ma non per questo vogliamo morire socialdemocratici”, disse ad un congresso. La sua ultima battaglia, nelle elezioni del 25 settembre, consisté nella denuncia del carattere implicitamente autoritario del presidenzialismo. Insomma, non usò mezze misure: apprezzava la virtù della moderazione, ma in alcuni momenti riconosceva la necessità dell’intransigenza.
L’articolo è stato pubblicato su formiche.net.
Giuseppe Fioroni e Lucio D’Ubaldo
La lunga storia di Gerardo Bianco è costellata di prestigiosi incarichi nel partito e nelle istituzioni. Uomo di cultura, non esibiva il tratto aristocratico che spesso accompagna la figura dell’intellettuale impegnato nella vita pubblica. Amava la sua terra, l’Irpinia, con la delicatezza e l’orgoglio di un vero meridionale, senza apparire ostile all’Italia produttiva del nord. Non a caso si era laureato a Milano, in quella Università Cattolica che in origine Padre Agostino Gemelli aveva pensato come fucina della classe dirigente cattolica. Anche per questo, il legame con la provincia – ammesso che l’Irpinia sia una provincia e non un pezzo d’Italia a se stante – non lo rendeva affatto provinciale. Se non avesse intrapreso il “mestiere della politica” sarebbe stato un eccellente professore di latino.
Il paradosso è che gli toccò raggiungere la notorietà attraverso una congiura di peones. Furono infatti loro, i deputati di seconda fila appellati in questo modo, a volerlo capogruppo dc a Montecitorio. Non fece nulla per staccarsi di dosso quella presunta contaminazione. D’altronde, dopo la vicenda Moro si scivolava verso la rottura della solidarietà nazionale e diventava stringente, vieppiù con il famoso preambolo votato al congresso del 1980, il ritorno a un’alleanza di governo con i socialisti, sbarrando la strada al confronto e alla collaborazione con i comunisti. Bianco, nato politicamente nella Base, condivise il passaggio al pentapartito. Si allontanò da De Mita e scelse Donat Cattin: passò, come usava dirsi all’epoca, dalla sinistra politica alla sinistra sociale (quest’ultima schierata a sostegno della segretaria Forlani).
Poi la Dc implose, non solo a causa di tangentopoli, trovando comunque i migliori a difesa di una tradizione di pensiero e di azione. Bianco scelse il Ppi, lo difese con la sua immagine di moderato a riprova di un’operazione che non voleva e non doveva configurarsi nei termini di una prevaricazione della sinistra cattolica e democristiana. E difese il Ppi, soprattutto, quando venne in chiaro il profilo ambiguo e contraddittorio della segreteria Buttiglione. Tenne duro, osannato dai più giovani, anche pronti a ribattezzarlo pubblicamente il “Gerry White” della vera Piazza del Gesù.
Non fu mai incline alla riduzione di ruolo e di tono del popolarismo. “Abbiamo rinunciato – disse in un congresso – a morire democristiani, ma non per questo vogliamo morire socialdemocratici”. Era il suo cruccio degli ultimi anni: non abdicare alla difesa di una tradizione, quella del cattolicesimo democratico e popolare, messa a dura prova dall’ibridismo politico-culturale insito nell’esperienza della Margherita prima e del Pd poi. Temeva del resto che l’assenza di un centro avanzato, di tipo degasperiano, aprisse le porte al successo della destra radicale. La sua ultima battaglia, nelle elezioni del 25 settembre, consisté pertanto nella denuncia del carattere implicitamente autoritario del presidenzialismo. Insomma, non usò mezze misure: apprezzava la virtù della moderazione, ma in alcuni momenti riconosceva la necessità dell’intransigenza.
Il suo esempio, osiamo pensare, è destinato a lasciare traccia nella politica italiana.
Fonte: https://formiche.net/2022/12/gerardo-bianco-de-gasperi-dc/