A distanza di una settimana dal referendum, l’impressione più netta è quella di un’occasione mancata. Non per il merito dei quesiti, che pure meritavano attenzione, ma per l’effetto prodotto da un’astensione di massa che ha superato il 70%. Un segnale di pericolo per la democrazia italiana, e cioè un fatto che non può essere ridotto a un incidente di percorso né banalizzato come espressione di disinteresse dei cittadini.
Lo ha scritto ieri, con la solita lucidità, Agostino Giovagnoli su Avvenire in un articolo che merita di essere ripreso nella parte in cui analizza l’erosione del procedimento democratico. Erosione che non può non destare allarme. Ad avviso dello storico cattolico, il dato più preoccupante non riguarda tanto l’apatia degli elettori quanto l’incapacità della politica di generare coinvolgimento, partecipazione, ascolto. La democrazia si svuota quando il confronto si spegne e le decisioni vengono blindate, scavalcando il Parlamento o riducendone il ruolo a una ratifica formale.
Riforme senza confronto
È questo il punto più critico dell’attuale fase politica: mentre il governo accelera su riforme costituzionali e provvedimenti delicati – dalla giustizia al premierato, dal fisco alla sicurezza – si registra una sistematica rinuncia al dialogo. Si legifera per decreti, si chiude il dibattito con il voto di fiducia, si costruisce consenso a colpi di slogan. È la “politica dei muri”, come la definisce giustamente Giovagnoli: una logica di contrapposizione permanente, che trasforma l’arena politica in un recinto ideologico. “Che poi tutto questo peggiori o migliori la vita del popolo italiano, non sembra avere molta importanza”.
Il valore democratico del dialogo
Ne derivano due conseguenze. Da un lato, la distanza crescente tra istituzioni e cittadini, che alimenta sfiducia e disillusione.
Dall’altro, la progressiva marginalizzazione dei contenuti: lavoro, welfare, immigrazione, ambiente restano sullo sfondo, trattati più come pretesti polemici che come sfide da affrontare insieme.
Contro questa deriva, occorre riscoprire il valore del dialogo. Non si tratta di un esercizio retorico, ma di una necessità democratica. Le riforme – tanto più quelle costituzionali – esigono consenso largo, confronto trasparente, coinvolgimento delle opposizioni e della società civile. Dove si chiude il dibattito, si apre la crisi della rappresentanza.
Il problema è che questa consapevolezza non può sussistere di per sé, ovvero astrattamente e in assenza, soprattutto, di una iniziativa a cui dovrebbero concorrere i cattolici democratici. La loro sensibilità, ove non dispersa nel movimentismo gruppuscolare, costituisce pur sempre una risorsa per la società. È questione da prendere tra le mani, una volta per tutte, se non si vuole trasferire nell’iperuranio qualcosa che appartiene alla concretezza dei processi in corso.