La politica di concessioni e cedimenti di Obama nei confronti dell’Iran e del regime iraniano conduce alla firma, nel luglio 2015 a Vienna, del cosiddetto accordo sul nucleare iraniano. L’accordo, molto voluto da Obama e molto perseguito dal suo ministro degli Esteri Kerry, è una lista di concessioni verso un paese che per anni ha nascosto i programmi nucleari e che supporta e finanzia gruppi terroristi come Hamas e Hezbollah, oltre che il regime siriano. Un paese il cui governo, tra gli obiettivi dichiarati, ha la distruzione di Israele. Le concessioni e i cedimenti, nell’accordo del 2015, avvengono in cambio di un arresto, ma non di una cancellazione, del progetto iraniano di costruire armi nucleari. Obama sembra credere che per la prima volta nella storia un regime fondato su un’ideologia aggressiva, in questo caso il fondamentalismo islamico, possa cambiare direzione dopo aver ottenuto ciò che vuole in un negoziato. L’ultima volta in cui un presidente americano, Clinton, ha concesso credito a un regime canaglia, la Corea del Nord, in materia di blocco del programma nucleare, il risultato è stato negativo. Negli anni precedenti l’accordo del 2015, osservatori credibili avvertono Obama che il regime iraniano non può avere via libera in Medio Oriente. Per quanto l’importanza strategica di tale regione sia stata esagerata per decenni, soltanto la Casa Bianca più anti-israeliana della storia, quella di Obama, può non vedere che l’unico ostacolo al controllo iraniano della parte occidentale del Medio Oriente, fino al Mediterraneo, è Israele.
Sanzioni economiche, come quelle faticosamente iniziate verso l’Iran nel 2006, non causano la caduta di un regime, ma possono indurlo a cedere. La revoca delle sanzioni, conseguente all’accordo obamiano con l’Iran, ha significato rafforzarne il regime. Dal 2010 in poi l’economia iraniana era in contrazione, con l’inflazione alle stelle e proteste interne. Ha ripreso a crescere con le concessioni che hanno preceduto l’accordo e poi con la revoca delle sanzioni, che ha portato al regime 150 miliardi di dollari di fondi (fondi congelati a seguito delle sanzioni) e ulteriore reddito dai rinnovati commerci e investimenti esteri. Concedere all’Iran l’accesso a 150 miliardi d dollari, pari al 10% del PIL iraniano, è come immettere due trilioni di dollari nell’economia USA del 2015. Persino l’anemica economia dell’epoca obamiana ne avrebbe avuto un notevole beneficio. Obama aggiunge un regalo-riscatto per il rilascio di ostaggi americani, con la spedizione in Iran (che doveva restare segreta) di 1,4 miliardi di dollari in contanti: un grosso aereo da trasporto ne era pieno.
L’accordo del 2015 lascia intatto il sistema nucleare iraniano poiché non richiede al regime di smantellarne le strutture. Il regime mantiene le capacità operative per produrre l’arma nucleare, perché l’accordo gli consente di mantenere migliaia di centrifughe e le scorte di uranio. Inoltre l’accordo consente la ricerca in materia di centrifughe avanzate, e persino garantisce assistenza tecnologica nel loro sviluppo, da parte dei paesi che, per ottusità strategica o piuttosto per interesse, firmano l’accordo insieme all’America di Obama: Francia, Gran Bretagna, Germania, nonché i due paesi che avversano la politica estera USA, Cina e Russia. Il governo Obama concede il diritto all’arricchimento dell’uranio, chiedendo soltanto che le centrifughe siano “sconnesse”, ma non smantellate. L’Iran mantiene la struttura di Fordow, costruita sotto una montagna e di cui ha mascherato l’esistenza per un decennio, fino a quando il Mossad israeliano ne ha rivelato l’esistenza. L’Iran non smantella il reattore ad acqua pesante di Arak, con l’impegno a non produrvi più plutonio. L’accordo non considera il programma missilistico iraniano, che prosegue negli anni dopo il 2015. L’accordo lascia off limits e non soggetti a ispezioni i siti militari iraniani; e già questo lo qualifica come una frode, perché in un regime come quello iraniano tutto può divenire sito militare.
Il capitolo ispezioni o verifiche dell’accordo è una farsa. Le uniche verifiche a cui dare valore sarebbero ispezioni non annunciate in ogni struttura. Invece l’accordo afferma che gli ispettori devono ricevere l’approvazione a una loro richiesta e che il regime può ritardare fino a 24 giorni l’ispezione. Ciò avviene in un paese che per due decenni ha barato e non concesso verifiche all’agenzia IAEA (agenzia ONU per l’energia atomica), tanto che l’intelligence occidentale ha impiegato anni a individuare i laboratori nucleari. Solo Obama, Kerry e i burocrati di Bruxelles possono non ammettere che in 24 giorni c’è tempo per spostare e occultare equipaggiamenti o prove di inadempienza. Riserve sull’accordo giungono anche da esperti di sanzioni di area Democratica, sostenitori di Hillary Clinton, come Mark Dubowitz (“L’Iran ha sospeso soltanto parti del programma che non richiedono più progressi significativi”) o Dennis Ross (“Il regime iraniano ha sfruttato gli accordi provvisori per portare avanti le tre direzioni del programma: la bomba all’uranio, la bomba al plutonio e il programma missilistico”). Riserve giungono dall’ex direttore dell’IAEA, il finlandese Olli Heinonen: “Se 9000, o anche solo 6000, centrifughe rimangono operative, il periodo di tempo per riprendere il programma e arrivare alla bomba è molto meno di un anno”. Da qui il ricatto che viene consentito al regime iraniano: se voi rompete l’intesa del 2015, noi riprendiamo il programma.
Questo dunque è l’accordo disastroso che Trump si trova in mano quando, alla fine del 2016, viene eletto presidente. Si trova di fronte a un Iran che muove milizie e finanzia attività terroristiche in Medio Oriente e altrove, e con una struttura nucleare intatta. Un Iran che cerca di insediarsi sul confine nord di Israele e fornisce fondi e armi ad Hamas sul confine sud, mentre sviluppa missili di media gittata in grado di raggiungere Israele. E poi nell’accordo del 2015 vi è una dimensione spregevole, che non può essere ignorata: il revocare sanzioni, concedere rafforzamento finanziario, compiacere un regime che per anni ha fornito gli esplosivi nascosti sulle strade (in gergo tecnico: IED) che in Iraq hanno ucciso, ferito, mutilato, centinaia di soldati americani andati in quel paese a portarvi una democrazia poco desiderata. Spregevoli, e non solo sconcertanti, sono le dichiarazioni del governo Obama, con cui Trump deve fare i conti, di volere “una nuova relazione” con l’Iran, un paese dal cui parlamento e dalla cui stampa continuano ad arrivare grida di “Morte all’America” e “Morte a Israele”.
A differenza di altri presidenti, Trump cerca di mantenere gli impegni presi con gli elettori, e per quanto riguarda l’Iran lo fa annunciando, l’8 maggio 2018, il ritiro degli USA dall’accordo del 2015. Si tratta di una decisione adeguata, coraggiosa e strategicamente significativa. Resa possibile, inoltre, dal fatto che l’accordo si fonda su una certa dose di inganno dell’ex presidente nei confronti del Congresso e dell’opinione pubblica americana: Obama non aveva portato l’accordo in Congresso (lo aveva fatto approvare dall’ONU!), non ne aveva rivelate le clausole secondarie, benché da decenni qualsiasi trattato riguardo al controllo delle armi fosse sottoposto alla ratifica, con due terzi dei voti, del Senato. Se quella ratifica vi fosse stata, un altro presidente non avrebbe potuto revocare il trattato. Tuttavia, abbattere l’intesa di palazzo voluta da Obama è difficile: la presenza di società occidentali in Iran è un ostacolo all’introduzione di nuove sanzioni; le violazioni all’accordo o le dispute su temi tecnici non possono essere impugnate, perché le clausole dell’accordo le proteggono; i media sono pronti all’abituale travisamento dei fatti. Ugualmente, nel maggio 2018 Trump rende noto che gli USA escono dall’accordo e che il regime iraniano ha sei mesi di tempo per modificare la politica di aggressioni regionali, dopo di che nuove sanzioni verrebbero introdotte dagli USA. La scelta di Trump è la correzione dovuta di un accordo difettoso, non verificabile, infame per i motivi che ho detto sopra e tale da essere una fortuna indebita per il regime iraniano. Inoltre, i sei mesi di tempo offrono la possibilità di negoziare un accordo migliore.
Ma il regime iraniano, giovandosi anche del sostegno di Unione Europea, Cina e Russia che confermano l’accordo del 2015, non cambia politica. A fine maggio 2018 si ha notizia di un deposito di materiali nucleari, tenuto segreto alle ispezioni e scoperto dallo spionaggio israeliano. Ai primi di agosto si ha conferma che il programma missilistico iraniano prosegue e che il regime opera per conservare la capacità di sviluppo dell’arma nucleare. Intanto prosegue il sostegno iraniano al regime siriano e a gruppi come Hezbollah, a cui vengono inviati nuovi armamenti (come denunciato anche dagli osservatori ONU in Libano). Forze armate iraniane si installano, in Siria, davanti alle alture del Golan, cioè in prossimità del confine israeliano. Mentre l’UE non collabora nemmeno per ottenere migliori ispezioni dei siti nucleari iraniani, Trump si avvicina alla decisione di imporre nuove sanzioni. Dice: “Dobbiamo tagliare l’accesso iraniano a risorse che servono per finanziare il progetto di destabilizzare il Medio Oriente”. Il 5 novembre 2018 le sanzioni unilaterali USA entrano in vigore. Esse riguardano l’industria petrolifera iraniana, i porti, i cantieri navali, e il settore finanziario, limitando l’accesso al sistema bancario americano. Le società che commerciano in petrolio iraniano sono soggette a penalità, se sono presenti sul mercato americano. Si prova anche a ostacolare i canali clandestini dell’export iraniano, come l’uso di petroliere con false bandiere. Inoltre le sanzioni cercano, con risultati che saranno modesti, di limitare gli acquisti (per lo più cinesi) di debito sovrano iraniano. Nel complesso non si tratta di sanzioni estreme: non viene ostacolata la vendita all’Iran di derrate agricole e medicinali; e poi il Dipartimento di Stato concede parziali deroghe per la vendita di petrolio e gas verso molti (direi troppi) paesi, tra cui Cina, India, Corea del Sud, Giappone. Un obiettivo non dichiarato delle sanzioni è di promuovere una contestazione interna al regime.
La fine della politica di appeasement verso l’Iran da parte del governo Trump avviene sulla scena di un Medio Oriente dove le ostilità vanno mutando. Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein, Giordania, cioè gli emirati e le monarchie sunnite, temono l’espansionismo sciita dell’Iran, e comprendono che il loro nemico è anche il nemico di Israele. Inoltre, sempre più essi richiedono la tecnologia civile di Israele, per esempio nel contrasto alla siccità. A lungo in Medio Oriente tra i motivi di odio verso Israele vi è stato il suo successo tecnologico, la sua inventiva, che è stata l’epitome del capitalismo artigianale. Nonostante i tentativi dei media americani di aprire una frattura insanabile tra il governo Trump e indirettamente Israele, da un lato, e l’Arabia Saudita dall’altro, il Crown Prince saudita ha dichiarato (in un’intervista a The Atlantic): “Israele ha il diritto di esistere”. Quel diritto, negato dagli stati arabi per oltre mezzo secolo, era messo in dubbio dall’accordo sul nucleare iraniano, che il senatore Graham definì nel 2016 “una sentenza di morte, con il tempo, per Israele”. Obama era un presidente che usava luoghi comuni antisemiti, riuscendo a farsi votare ugualmente dai ricchi ebrei americani. Il primo ministro israeliano Netanyahu denunciò, anche parlando al Congresso USA, il pericolo: nel marzo 2015, prima che l’accordo fosse concluso, disse chiaramente: “Il regime iraniano è impegnato alla distruzione di Israele. Potrebbe infrangere l’accordo e arrivare all’arma nucleare in breve tempo. Prima di revocare le sanzioni, il mondo dovrebbe chiedere all’Iran tre cose: primo, mettere fine alla politica di aggressioni in Medio Oriente; secondo, mettere fine al sostegno del terrorismo; terzo, mettere fine alla minaccia di annientare il mio paese”. Questi giustificati argomenti sono sufficienti a rendere doveroso il cambio di direzione deciso da Trump.
I nemici di Trump e i sostenitori dell’accordo del 2015 affermano che uscirne significa volere “la guerra”. Al contrario, era l’accordo che lasciava soltanto la soluzione militare, e non più le sanzioni, come strumento per fermare le azioni del regime iraniano. Dai media liberal americani arriva anche la precisazione che è Israele a voler spingere gli USA a una guerra contro l’Iran. Si tratta di un’accusa odiosa e turpe. Nei suoi 70 anni di storia, Israele non ha mai chiesto agli USA di combattere per sé, anche quando ne aveva un bisogno estremo. Non nel 1948, quando 650 mila ebrei furono aggrediti da 60 milioni di arabi. Non nel 1967, quando tre milioni di ebrei dovettero combattere per l’esistenza contro 150 milioni di arabi. Non nel 1973, quando di nuovo Israele fu assalito da eserciti nemici e fu sul punto di soccombere, prima di rovesciare le sorti della guerra, attraversare il canale di Suez e chiudere in una sacca mortale l’esercito egiziano. Non nella guerra in Libano. Non quando Saddam in Iraq costruiva l’atomica. Non in Siria, da cui il regime iraniano progetta di rinnovare l’attacco. Israele non è nella lunga lista delle nazioni per le quali tanti giovani americani hanno combattuto e dato la vita: Corea, Iraq, Kuwait, Afghanistan, Vietnam, Filippine, e più indietro ancora i paesi europei (anche l’Italia, e due volte la Francia). Poiché il pericolo di nuove aggressioni a Israele rimane, Netanyahu ricorda ai suoi vicini e al mondo: “I giorni in cui il popolo ebraico restava passivo, davanti a nemici che volevano il suo genocidio, sono finiti per sempre. Gli uomini e le donne che difendono la nostra terra non hanno limiti al coraggio. Dopo cento generazioni noi, il popolo ebraico, sappiamo difenderci”.
Alla decisione di Trump di ripristinare le sanzioni verso l’Iran, la UE non aderisce, e ciò complica il progetto di Washington di isolare l’Iran. Nella decisione dei burocrati di Bruxelles e dei governi europei, soprattutto quelli francese e tedesco, vi è una tentazione di tradimento. In nome dei commerci, o anche soltanto in nome di rancide ideologie (rancide anche nelle indefinite pieghe antisemite), quei governi non accettano le richieste che arrivano dal governo Trump: perseguire ed espellere gli agenti iraniani in Europa; chiudere, se necessario, le ambasciate; sanzionare le società coinvolte in attività di terrorismo. Nemmeno un attentato maggiore in Danimarca, forse collegato a fondi iraniani e sventato all’ultimo momento nel settembre 2018, convince a un giro di vite. I governi che dettano legge a Bruxelles pensano di poter aspettare l’uscita di scena di Trump nel 2020, che essi auspicano. Quando nel novembre 2018 Trump reintroduce le sanzioni, quei governi europei e i loro stipendiatissimi passacarte annunciano un antipatico tentativo di stabilire un canale di pagamento in euro, che escluda il sistema del dollaro, per mantenere i legami economici con l’Iran. Persino con qualche accanimento, funzionari di Bruxelles studiano un sistema di baratto che consenta all’Iran di vendere petrolio o gas in Cina, e averne in cambio merci tecnologiche europee prodotte in Cina. La mentalità o l’ideologia che stanno dietro a queste azioni sono le stesse del governo Obama, il cui segretario al Tesoro, Lew, nel luglio 2015 assicurò in Congresso che all’Iran “negheremo l’accesso al mercato finanziario USA”, mentre invece faceva pressioni sulle banche americane affinché lavorassero con l’Iran. Affermando che l’accordo sul nucleare faceva dell’Iran un accettabile interlocutore per gli affari, Obama diede istruzioni a Kerry e altri ministri affinché incoraggiassero le istituzioni finanziarie a lavorare con l’Iran, e a questo scopo inviò delegati in molti paesi del mondo. Un analogo ambiguo appeasement è la scelta dei potentati europei. Nel febbraio 2019, quando alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco il vice presidente americano Mike Pence chiede ai governi europei di unirsi agli USA nel denunciare l’accordo del 2015, la risposta è evasiva, mentre il governo tedesco e quello francese confermano (con il costituire società che diano attuazione al canale di pagamento in euro) i legami economici e diplomatici con l’Iran.
Ma intanto le sanzioni americane spingono importanti società europee a uscire dal mercato iraniano, nel timore di perdere l’accesso all’economia USA e ai suoi 21 trilioni di dollari di PIL. A inizio 2019 le sanzioni cominciano a farsi sentire, e l’economia iraniana incespica. L’export di petrolio e gas è sceso, in un paese dove quell’export fornisce l’80% delle entrate. Le maggiori società europee si sono ritirate. Sul piano delle transazioni bancarie, rimane da vedere se le sanzioni unilaterali USA sono sufficienti. Per anni, prima durante i negoziati, poi dopo l’accordo del 2015, i legami commerciali con la Cina hanno portato investimenti in Iran, mentre quelli con la Russia hanno significato la costruzione di una seconda centrale nucleare e massicci acquisti di armamenti avanzati. Servendosi del fatto che l’accordo non riguardava tali acquisti, l’Iran ha sviluppato missili balistici e comprato da russi e cinesi missili terra-aria e terra-mare, oltre che imbarcazioni veloci fornite di siluri ad alto potenziale. Gli anni dell’accordo, dopo il 2014, hanno coinciso con la guerra in Siria, di cui l’Iran è stato il principale fomentatore, e con lo spostamento di armi e truppe iraniane verso il Libano. Nei primi due anni di presidenza Trump le azioni di disturbo o le piccole aggressioni da parte di motovedette iraniane verso le unità della flotta USA, nello Stretto di Hormuz o nel Golfo Persico, sono diminuite fino all’irrilevanza. Crescono però i timori di un attentato maggiore a un incrociatore o una portaerei USA, e vi sarebbero indicazioni al riguardo sui media iraniani. Trump e i suoi ministri della Difesa hanno più volte messo in guardia il regime iraniano, anche con comunicazioni ufficiali. Nel dicembre 2018, Trump lo ha fatto con uno straordinario tweet: “Non siamo più un paese che tollera le vostre dementi parole e azioni di aggressione. State attenti!”.
La ripresa delle sanzioni verso l’Iran, insieme a una credibile deterrenza armata, è la strada per arrivare a nuovi negoziati. Il governo Trump afferma di volere un accordo complessivo, non soltanto sullo sviluppo dell’arma nucleare da parte dell’Iran, ma anche sul programma missilistico iraniano e sul sostegno a gruppi terroristi. La mancanza di consenso alle nuove sanzioni da parte dei maggiori governi europei, e l’evidenza che Cina e Russia proseguono i loro commerci con l’Iran, sono ostacoli maggiori. In ogni caso, qualunque ne sia l’esito, la decisione di Trump di revocare l’accordo concluso da Obama è moralmente apprezzabile e strategicamente coerente. Quanto al regime iraniano, la sua strategia è quella di tutti i nemici di Trump, cioè di aspettare una sua sconfitta nelle elezioni del 2020 e intanto operare perché ciò avvenga.