Ora che il rito della Convention si è adeguatamente celebrato i Democratici USA avviano lo sprint che nelle loro speranze li condurrà a mantenere la Casa Bianca. Poco più di due mesi per consolidare il vantaggio acquisito nel corso delle ultime settimane partendo da una situazione notevolmente compromessa.
È impressionante come le cose siano cambiate in così poco tempo. A conferma che nell’epoca della comunicazione immediata c’è spazio quasi solo per l’immagine, per le sensazioni del momento, sostanzialmente per la superficialità.
Donald Trump nel giro di una giornata è diventato improvvisamente vecchio: non perché non lo fosse prima, ma perché la sua competitor è cambiata. Non più un anziano e con preoccupanti segnali di invecchiamento neuronale; ma una donna assai più giovane e nel pieno della maturità. Efficace e determinata. Molto difficile, per l’ex presidente, sconfiggerla sul piano mediatico. Ecco perché il campo democratico è adesso ottimisticamente impegnato col pieno di energie per vincere la partita, mentre quello repubblicano ha accusato il colpo.
Tutto ciò non significa che le questioni di merito, sia quelle maneggiate con un surplus di propaganda (come le migrazioni) sia quelle più inerenti la vita quotidiana degli americani (come l’inflazione o l’occupazione lavorativa), non avranno importanza nella ormai breve campagna elettorale. Né che la verticale frattura del Paese-guida dell’Occidente fra un campo ormai più reazionario che conservatore e un campo progressista a sua volta diviso fra tendenze più radicali e al contrario più conservatrici non sia e non rimanga la cifra principale degli odierni problemi americani.
Ma certamente le riflessioni su questi temi verranno influenzate nella testa dei molti elettori non ideologicamente o programmaticamente schierati con uno o l’altro dei due partiti dalla efficacia dell’immagine dei due candidati.
La rinnovata vitalità della contesa è anche merito del presidente in carica, Joe Biden. Bisogna dirlo, senza timore. Stava sbagliando, ha avuto la forza di riconoscerlo. Non con un discorso, con una decisione. Si è ritirato dalla corsa. Certo, sono state le pressioni – anche energiche, come pare siano state quelle di Barack Obama e Nancy Pelosi – a convincerlo. Forse anche a costringerlo. Probabilmente alla fine sarà stata la moglie Jill, che lo ha sempre sostenuto, a consigliarlo per il meglio. Resta però il fatto che, pur ferito nell’orgoglio, il vecchio Joe si è con umiltà messo da parte.
È doveroso ricordarlo. È giusto. Perché l’urgenza della nuova battaglia lo ha sacrificato anche nella Convention del suo partito. Relegato in apertura, in orario tardo per i residenti della costa est (da dove lui proviene), applaudito e ringraziato da un’organizzazione studiata nei dettagli ma di fatto già accantonato, quasi che non fosse ancora il Presidente, per ancora cinque mesi.
La vita a volte è crudele, la politica lo è quasi sempre. Anche nei confronti di chi, come Joe Biden, nella politica ha vissuto l’intera esistenza, cogliendo soddisfazioni e successi che sono concessi a pochi. E dunque le lacrime di commozione sono state l’epitaffio di una vita, prima che di una carriera. Una vita straordinaria, per di più contrappuntata da molti drammi familiari.
In futuro probabilmente questo Presidente di transizione verrà largamente rivalutato dal lavoro degli storici e degli analisti non legati alla stretta attualità. Ma oggi – accantonato così bruscamente nei fatti anche se non nelle maniere, che comunque avrebbero dovuto essere un poco più empatiche e meno spicce – è importante riconoscergli di aver saputo anteporre l’interesse generale a quello percepito come personale. Indicando la sua vice ha avviato il rinnovamento generazionale del suo partito, ha posto gli Stati Uniti di fronte alla possibilità di eleggere alla presidenza per la prima volta una donna, di colore e di seconda generazione. Non è poco. Non è davvero poco.