La candidatura di Gualtieri a sindaco di Roma appare una simulazione che rimanda a un vecchio modo di intendere la politica. 

Si simula l’esercizio della responsabilità, perché si lancia una personalità d’indubbio spessore e certamente adeguato a ridare slancio a una città depressa, ma si dissimula il nodo politico che le amministrative, specie nella Capitale, devono affrontare e risolvere. Certo, se non fosse per una sgradevole sensazione di ars combinatoria a fini di potere, con un ex ministro appena uscito dal governo e prontamente destinato ad altro incarico, tutto potrebbe rientrare in un quadro di ragionevolezza: ci vuole in effetti un sindaco prepararato, capace di portare una ventata di competenza dopo anni di approssimazioni e inconcludenze, sicché parrebbe logico indicare la figura dell’unico dirigente Pd romano all’altezza di questo identikit.

Tuttavia Gualtieri non è un tecnico o non è soltanto un tecnico. Se entra in pista ha da porsi il problema di quale ruolo intenda svolgere, sapendo che la partita capitolina assume un valore politico straordinario. A prescindere da Calenda, destinato a menomare la sua credibilità qualora compisse il fatidico passo indietro, la scelta del futuro inquilino del Campidoglio pone in risalto la questione di una nuova alleanza, tanto più se collegata al fresco cambiamento del quadro di governo. Si tratta di capire, in altri termini, se l’avvento di Draghi lasci inalterato un consunto modello di alleanze o se ne richieda viceversa una profonda ristrutturazione.

Forza Italia non ha la forza e neppure la volontà, con tutta evidenza, di giocare la carta di una possibile ricomposizione al centro. Berlusconi pretende lucrare qualcosa, e forse più di qualcosa, dalla partecipazione al governo, ma non assume iniziative degne di nota per quanto attiene alla formazione di un disegno politico coerente, tale cioè da trasferire a terra i ragionamenti sulle grandi opzioni ideali, in primo luogo sull’europeismo come banco di prova di una più autorevole e sensibile classe dirigente. Allora, vista la mancanza di fantasia nello schieramento moderato di centrodestra, a maggior ragione dovrebbe valere un criterio direttivo meno angusto per le forze democratiche e popolari, di cui il Pd costituisce un vettore decisivo.

Tra la Raggi e Abodi, ammesso che sopravvivano entrambi come candidati, si apre un grande spazio al centro. Questo spazio al Pd di Zingaretti non sembra interessare. Si prova a simulare, appunto, una ipotesi di buongoverno per far passare di nascosto un faticoso revamping del motore giallorosso, immaginando che il profilo di Gualtieri induca perlomeno al secondo turno a convergenze elettorali “spontanee” tra democratici e grillini. È un approccio molto discutibile. Di certo non contempla il bisogno di inventare, passando per il grande varco della democrazia locale, un riposizionamento del mondo riformista sull’onda delle inevitabili trasformazioni che l’avvento di Draghi lascia presagire.

Con questa modalità la candidatura di Gualtieri immette sabbia negli ingranaggi del rinnovamento. È uno schiaffo a chi ha sostenuto finora la proposta di Calenda. Sancisce la necessità di una più determinata distinzione nell’area del riformismo, con l’implicito richiamo all’urgenza di un rilancio della politica di centro, senza più complessi d’inferiorità. O meglio, senza più subordinazioni.