La tensione fra Israele e i suoi peggiori nemici (l’Iran e i suoi proxy, le tre H – Hamas, Hezbollah, Houthy) è, come tutti vediamo ogni giorno dallo scorso 7 ottobre, altissima. Il rischio della deflagrazione del conflitto anche in Libano è assai concreto e infatti l’altro giorno ci si è andati molto vicino, con l’attacco preventivo dell’IDF israeliano per eliminare droni, missili, piattaforme di lancio di Hezbollah e la seguente risposta con il lancio di oltre 300 razzi e droni verso il nord di Israele.
Non solo. La risposta iraniana all’omicidio a Teheran, qualche settimana fa, del capo politico di Hamas è sospesa, non annullata. L’estenuante trattativa in corso al Cairo per il cessate-il-fuoco o anche per qualcosa di più non giunge ad una conclusione, e così si continua a combattere e ormai quasi non si contano più le vittime, oltre le 40.000. E ancora: adesso Israele pare voler accentuare la propria pressione militare in Cisgiordania, accentuando così il pericolo di un’estensione del conflitto con Hamas che, infatti, ha minacciato il ritorno dei suoi “martiri suicidi” disposti a farsi saltare in aria in mezzo alla folla.
Situazione molto complicata. Eppure, eppure se tutto non è ancora esploso una ragione c’è, e non la prudenza con la quale gli Stati Uniti sostengono l’alleato israeliano. La ragione è che l’intera regione a prevalenza sunnita guarda con terrore ad una possibile espansione in essa dell’influenza (e qualcosa di più) degli ayatollah sciiti. L’Iran all’Arabia e alle altre monarchie del Golfo, così come all’Egitto e alla Giordania, fa molto più paura di Israele con cui, peraltro, i rapporti diplomatici sono stati da tempo riallacciati (con l’eccezione, per ora, di Riad e di Muscat) e non sono stati interrotti neppure in questi mesi nonostante la mattanza a Gaza (ovviamente condannata con toni forti ma non fino al punto di troncare i rapporti con Gerusalemme).
Nel mondo sunnita solo la Turchia di Erdogan, che chiaramente ambisce a giocare un ruolo da protagonista regionale in ossequio ad un passato nel quale fu grande potenza mediterranea e mediorientale, ha attaccato duramente Israele e il suo governo, quasi a voler costituire un’alternativa sunnita al radicalismo antisionista iraniano. Per assumere un ruolo guida fino ad oggi esercitato dall’Arabia. Obiettivo tanto ambizioso quanto difficile, che genera ulteriori dubbi a Washington su quale sia alla fine il vero gioco di Erdogan, alleato poco disciplinato nella NATO attento a giocare una partita geopolitica tutta sua ad alto grado di ambiguità.
Tutto ciò significa che una guerra strisciante è in corso, ma essa non coinvolge solo Israele e i suoi nemici. C’è una guerra sotterranea fra Arabia – e il suo mondo di riferimento – e Iran, nonostante la ripresa recente di relazioni diplomatiche favorite dalla Cina. Ed è di natura globale, perché attiene non solo al potere terreno ma anche a quello spirituale e quindi molto più devastante, potenzialmente. E però c’è anche una guerra, non dichiarata o, meglio, dichiarata attraverso l’opposizione a un terzo (Israele, appunto), interna al mondo sunnita, non più rappresentato in toto dall’Arabia ospite dei luoghi sacri della religione musulmana.
Non è prevedibile dunque, purtroppo, un consistente e rapido calo della tensione nell’intera regione. Neppure se e quando a Gaza cessassero i bombardamenti, unica buona notizia casomai al Cairo questo nuovo round negoziale individuasse un pertugio per abbozzare una fragile tregua. Fragile, ma pur sempre tregua.