Tra l’ideologia dei confini aperti e della globalizzazione da un lato, la pandemia in corso dall’altro, vi è una relazione rintracciabile. Negli USA il 27 gennaio scorso, il giorno in cui Trump blocca i voli da e per la Cina, il candidato Democratico alla presidenza Joe Biden definisce il blocco “isterica xenofobia”. Il 2 febbraio, il giorno in cui Trump (pur con i poteri limitati che un presidente ha in materia di sanità, come su altri temi) richiede la quarantena per chi fosse stato in Cina di recente, il leader Democratico in Senato, Schumer, dichiara: “Il prematuro bando dei contatti con la Cina è un pretesto anti-immigrati”. Il 23 marzo, quando il Senato approva una terza (già due generose leggi di sostegno sociale erano state approvate, per centinaia di miliardi di dollari) e debordante legge di spesa per il sostegno all’economia e a tutti i cittadini – colpiti o no dalle misure di contenimento della pandemia –, i Democratici alla Camera chiedono di sostituirla con un loro progetto che include l’estensione a tutti gli stati degli strumenti che già rendono possibili le frodi elettorali in alcuni stati a governo Democratico: assenza di identificazione fotografica per chi vota, nessuna identificazione credibile per i voti inviati per corrispondenza, raccolta dei voti casa per casa. Inoltre i Democratici chiedono fondi per loro obiettivi che non hanno alcuna relazione con la pandemia: fondi per prorogare la presenza nel paese degli immigrati illegali, per alzare il salario minimo obbligatorio, per aumentare il potere dei sindacati nelle grandi società, ed altro. Delle loro richieste nel testo firmato da Trump rimane poco, ma quel poco (che corrisponde a circa 200 milioni di dollari, un decimo del totale stanziato dalla legge di spesa) è troppo e impone, insieme ad altri dati, un giudizio negativo sulla legge. Ricordo che già nella prima legge di sostegno sociale vi erano le misure pertinenti in relazione all’assistenza sanitaria, come i test con tampone gratuiti per tutti, o la copertura assicurativa gratuita, anche per le polizze che non lo prevedevano, delle terapie per l’epidemia del virus cinese.

L’estremismo anti-Trump e l’immigrazionismo che vuole i confini aperti e le città-santuario, e che è indifferente alle conseguenze sulla convivenza sociale, hanno reso tossica la dirigenza dei Democratici. La pandemia è occasione per investire Trump con accuse prive di fondamento, sostenute o non contestate dai media più diffusi, che una volta di più tradiscono il loro ruolo. Come sempre, le accuse di media disonesti in America vengono riprese e ripetute, più o meno in malafede e qualche volta per ignoranza, dai media italiani. In realtà Trump e il suo governo si sono mossi con efficienza (si possono ricordare le lentezze del governo Obama per l’assai meno grave “influenza suina”, che causò negli USA 12 mila morti); le eventuali carenze o impreparazione sono da imputare a città e stati, che sono responsabili della gestione e programmazione in materia di sanità; e le situazioni più critiche si hanno in città con governi Democratici, nonostante gli ingenti e articolati aiuti federali. Per quanto riguarda il presidente, già il 21 gennaio, quando in Europa governi e media minimizzavano, Trump concordava con l’autorità sanitaria USA (CDC, Center for Desease Control) di indirizzare in tre soli aeroporti chi arrivava dalla Cina, tra cui decine di migliaia di studenti, e di attuarvi uno screening medico. Già il 23 gennaio, quando in California l’allontanamento da un’aula universitaria di uno studente cinese ammalato veniva contestato dai liberal che controllano lo stato e le università, il dottor Fauci, l’immunologo incaricato da Trump di guidare la task force medica anti-virus di Wuhan, annunciava l’inizio della sperimentazione su un vaccino. Il 27 gennaio, quando il Congresso USA era bloccato dalla frode del falso impeachment, Trump sospendeva i voli da e per la Cina (il blocco diveniva totale il 31 gennaio) e il suo decreto, senza dubbio decisivo nel ritardare di 5-6 settimane la diffusione del virus negli USA e dunque nel salvare migliaia di vite, veniva accolto dai Democratici e dai loro media con accuse di “razzismo” e di “xenofobia”. 

In Italia la risposta del governo è stata più lenta e ideologica. Le conseguenze su alcune province italiane devastate dall’epidemia possono delineare una responsabilità penale. Dopo che il 30 gennaio il WHO (l’agenzia ONU World Health Organization) aveva dichiarato, peraltro in termini riduttivi (e dirò perché), un’emergenza sanitaria globale, il 31 gennaio il governo italiano pubblicava sulla Gazzetta Ufficiale l’annuncio di un’emergenza per la diffusione del virus cinese. I voli in Italia da e per la Cina venivano chiusi il 2 febbraio. I turisti cinesi che arrivavano nel Nord Italia con treni o pullman, per lo più dalla Germania, non venivano fermati né controllati. Le richieste dei virologi di mettere in quarantena tutti coloro, tra cui i cittadini italiani, che erano tornati dalla Cina o risultavano in contatto con europei di ritorno dalla Cina, non venivano accolte: il che è stato il fattore decisivo nell’esplosione della pandemia in Lombardia e in Veneto. Mentre il sindaco di Firenze proponeva “l’abbraccio a un cinese” come apertura culturale (o come messaggio verso la comunità di cinesi di Prato, che lo finanzia), sui maggiori media non si sottolineava, forse per evitare accuse di “razzismo”, che la Lombardia ha un’alta concentrazione di immigrati cinesi, né che il virus era giunto in Italia con due turisti cinesi (poi curati e guariti), oltre che – quasi certamente – con uomini d’affari tornati dalla Cina e non messi in quarantena. Il 15 febbraio, dopo contatti con l’ONU, il governo italiano mandava in regalo alla Cina 18 tonnellate di strumenti sanitari. Il 21 febbraio Conte dichiarava che “non c’è motivo per allarmismi”, e il 28 febbraio lo ripeteva in TV. Il 9 marzo, quando la situazione in alcune province lombarde diveniva gravissima, il governo italiano iniziava provvedimenti restrittivi, certamente richiesti da virologi e autorità sanitarie: misure severe su scala nazionale, ma insufficienti nelle province più colpite, così da richiedere in Lombardia nuove chiusure due settimane più tardi. Il modello Giappone Corea Singapore, cioè il lockdown non per tutti, in grado di limitare i paurosi danni all’economia, non trovava accoglienza. 

Pur nell’emergenza, una seria questione è che i decreti del governo italiano implicano un’autorità che il governo attuale non ha, essendo contestato da metà della nazione: un’autorità che esso si arroga, con la copertura del capo dello stato, e che è in sostanza usurpata. Quando a metà marzo il contagio si allargava, il governo italiano pensava ad aprire le carceri per alcune categorie di detenuti. Mentre gli italiani erano agli arresti domiciliari, il governo non bloccava gli sbarchi dei migranti. Quando a Bergamo ogni famiglia aveva un morto e i camion dell’Esercito portavano via le bare o i cartoni con le salme, i media italiani vicini al governo evitavano di denunciare le responsabilità del governo cinese e, insieme ai funzionari del WHO, si impegnavano a cercare un nome asettico per il virus cinese di Wuhan. Mentre in Italia e in Occidente trilioni di dollari e di euro andavano in fumo sui mercati, per il panico e per le conseguenze economiche del virus cinese, dai megafoni del globalismo ci arrivava la conferma che il problema è il “razzismo”. 

La pandemia, invece, dovrebbe essere la fine degli eccessi del globalismo. La prima denuncia necessaria è quella per gli imperdonabili ritardi del governo cinese nel comunicare le reali dimensioni dell’epidemia, di cui quel governo era al corrente almeno da novembre 2019. Ho raccontato altrove di come il governo cinese abbia bloccato, in dicembre, le informazioni del dottor Li Wenliang alla comunità scientifica; come lo abbia costretto a firmare l’ammissione di aver diffuso “dicerie”; come abbia silenziato e incarcerato lui e altri 6 dottori cinesi disposti a denunciare quanto accadeva a Wuhan; e come a metà marzo abbia cercato di confondere le responsabilità con vergognose accuse agli USA, o con il tentativo di imporre la definizione di “virus italiano”. Nessuno dei maggiori governi europei, tantomeno quello italiano, ha denunciato le manovre di propaganda del governo cinese, con un’ipocrisia ben sperimentata da quando l’inquinamento atmosferico e ambientale che ha origine in Cina viene assolto in nome delle esigenze di crescita della Cina. Da anni abbiamo indicazioni che figure al vertice della classe politica, dei media, delle grandi società, non solo in Asia e in Africa, ma anche in Europa e in America, sono sulla lista paga del governo cinese. Le agenzie dell’ONU stanno diventando agenzie del governo cinese: così si spiegano le imprecisioni e la mancanza di denunce del WHO. 

Gli USA devono verificare il ruolo del WHO, che essi finanziano. Dal 2009 in poi, gli USA hanno fatto donazioni per più di 100 miliardi di dollari per assistenza sanitaria ad altri paesi, per lo più in Africa e in Asia. Nella prima delle tre leggi di spesa post-pandemia approvate dal Congresso nel marzo 2020, vi sono 1,3 miliardi di dollari per assistenza sanitaria all’estero, di cui 600 milioni versati all’ONU e al WHO. A fine gennaio 2020 il blocco dei voli da e per la Cina deciso da Trump andò incontro al dissenso del WHO, il cui direttore dichiarò che il blocco avrebbe “aumentato la paura senza benefici sanitari”. Il WHO non ha dichiarato la pandemia fino all’11 marzo. Una condotta diversa del WHO poteva indurre alcuni paesi a chiudere i confini con settimane di anticipo. Sappiamo che il governo cinese spende miliardi per allargare il controllo su agenzie come il WHO e per la propaganda all’estero. Vediamo i maggiori media USA, e al seguito quelli italiani, evitare denunce nei confronti della Cina e diffonderne le bugie. In Italia abbiamo visto i media enfatizzare l’arrivo dalla Cina di qualche decina di respiratori e di 5 o 10 medici cinesi (peraltro benvenuti), senza chiarire che le forniture erano a pagamento, a differenza dei materiali sanitari inviati dal governo italiano in Cina nel febbraio 2020. Al governo cinese non può essere consentito di falsificare la realtà. Non hanno colpe i medici cinesi che hanno combattuto l’epidemia a Wuhan, né i medici e gli scienziati cinesi che scambiano informazioni con i colleghi in Occidente. Ma a molti livelli, dagli ispettori inviati dal governo di Pechino nelle zone colpite dal virus ai vertici della polizia e dei militari, il regime cinese è responsabile dell’incubo generato a Wuhan.

Negli USA l’attuale cautela che arriva dai maggiori media, timorosi di spingere troppo oltre le accuse alla Cina, ha come precedente decenni di benevolenza da parte dei governi USA, e di impunità per la Cina, per le scorrettezze commerciali cinesi e per il sistematico furto di tecnologia e di proprietà intellettuale applicato dal governo di Pechino. Per decenni, dalla presidenza Carter in poi, dunque passando attraverso molte vicende storiche, nessuna denuncia del protezionismo commerciale, dello spionaggio, delle invasioni cyber, delle crescenti acquisizioni cinesi in Occidente, sembrò possibile. Negli USA la collaborazione indifesa con la Cina era persino codificata e prevista nelle agenzie federali e nelle grandi società private. Quando nel 1995-1996 oltre 200 mila magnifici aceri del New England furono distrutti da un insetto arrivato dalla Cina sulle navi merci, il silenzio fu governativo (silenzio replicato in Italia nel 2019, quando interi raccolti nel Nord Italia vengono distrutti dalla cimice cinese arrivata con i container delle merci). Per decenni professori e studenti vengono arrestati nei campus in quanto spie cinesi, senza che i media diano rilievo ai numeri e agli obiettivi della presenza cinese nelle università USA. Per decenni Hollywood, che costruisce film su qualsiasi menzogna, ha avuto cura di non produrre nulla che potesse dispiacere a Pechino. Per decenni i media hanno coperto le tariffe commerciali applicate dalla Cina e le pratiche di basso costo del lavoro e incuranza ambientale che hanno favorito il trasferimento di ingenti produzioni in Cina. Gli stessi media che 80 anni fa coprirono i crimini di Stalin, dal 2012 parlano del presidente cinese Xi come di un leader illuminato, anziché indicarlo come un metodico killer di massa. Il passaggio a quanto accade con l’epidemia per il virus di Wuhan è rintracciabile. Perché vi è un primo responsabile per il modo in cui il virus si è diffuso e per il modo in cui ha invaso i paesi occidentali: il regime comunista cinese, che per mesi non ha informato di quanto accadeva e non ha consentito ai medici del CDC americano di entrare in Cina.  

Il 31 dicembre scorso il governo di Pechino invia al WHO una comunicazione in cui si parla di un’epidemia a Wuhan, ma si afferma che non c’è passaggio del virus “tra umani”. Benché dalla Cina corrano sul web le parole di medici e semplici cittadini cinesi che affermano il contrario, il 14 gennaio il WHO scrive sul suo sito: “Il governo cinese afferma che non c’è trasmissione tra umani”. Il giorno dopo il WHO comunica ufficialmente al mondo: “Dalle informazioni che abbiamo, non vi è prova di una sostenuta trasmissione tra umani”. L’inganno cinese, e la scarsa volontà di indagare del WHO, hanno successo. In quel momento da oltre un mese il governo di Pechino punisce e imprigiona chi parla di quanto accade. Il 7 gennaio una riunione al vertice a Pechino ha come argomento la lotta all’epidemia. Il 15 gennaio una folta delegazione cinese arriva a Washington per firmare con il governo Trump la prima parte dell’accordo commerciale negoziato da oltre 18 mesi: i delegati cinesi, delle cui condizioni di salute non si può essere certi, scambiano grandi strette di mano e si ammassano con i delegati americani, tra cui molte personalità anziane. Finalmente, il 20 gennaio, la Cina ammette la trasmissione del virus tra umani, ma ancora afferma che la malattia è “prevenibile e curabile”. Sette giorni dopo Trump blocca i voli dalla Cina. Dodici giorni dopo li blocca anche l’Italia. 

Appare adeguata la valutazione del governo Trump, resa ufficiale dal Segretario per la Sicurezza Nazionale, O’Brien: “Il regime cinese ha tenuto nascoste le notizie sull’epidemia. Ha punito dottori e giornalisti che ne avevano parlato. Ha impedito la possibilità di prevenire una pandemia”. Come è tradizione per i regimi del comunismo reale, per il governo cinese la menzogna è un primario strumento di controllo della società e del potere. Il governo di Pechino cerca di confondere l’opinione pubblica con strampalate accuse all’Occidente. Come qualificati osservatori negli USA hanno indicato, è giunto il momento di rompere la dipendenza commerciale da un regime così disonesto, che ha contribuito a portare nel mondo così tanta sofferenza. Tra le reazioni possibili da parte USA, mentre appare fuori portata la cancellazione del debito sovrano USA detenuto dalla Cina (1,14 trilioni di dollari), realistica ed urgente è la necessità di rompere la dipendenza dalla Cina per quanto riguarda la produzione di medicinali, in particolare antibiotici. Gli USA, come i paesi europei, devono produrre in autonomia i farmaci di cui hanno necessità, così come devono produrre in autonomia l’acciaio per le navi o i camion, e molto d’altro. Le supply chains, cioè le catene di produzione e distribuzione, sono da decenni troppo dipendenti dalla Cina. Per i medicinali, anche dall’India: si veda come, a fine marzo 2020, nel momento in cui il chloroquine viene indicato come possibile farmaco per le infezioni da virus di Wuhan, l’India, che ne è il maggiore produttore, ne blocca l’esportazione. La lezione deve coinvolgere i governi europei, troppo disponibili verso il regime cinese: da Boris Johnson, che invita la Huawei a costruire il 5G in Gran Bretagna, al ministro degli Esteri dell’attuale governo italiano, sempre ossequioso verso le imposture di Pechino. In America come in Europa, tra le misure da considerare vi è quella di negare l’accesso agli aiuti finanziari post-pandemia alle società che investono in Cina.

Come ho detto, tra la pandemia in corso e l’ideologia del globalismo e dell’immigrazionismo vi è una relazione diretta. Tutt’altro che essere manifestazione di apertura mentale, l’immigrazionismo è la religione dei ciarlatani. In qualche caso, quella dei traditori. Per quanto riguarda gli USA, l’immigrazionismo è divenuto il volto e la sostanza del partito Democratico. Destabilizzati da Trump e dal suo tentativo di cambiare su temi cruciali, gli attivisti dei confini aperti hanno trasformato il partito Democratico nel movimento più estremista della storia USA. La presa che tale partito mantiene su circa metà della società deriva dalla confusione della società. Una confusione per decenni alimentata anche dai flussi immigratori e divenuta aggressiva negli anni di Obama, quando la fortuna politica dei Democratici fu affidata alle sussidiate masse urbane e suburbane. Un contributo decisivo viene da gruppi finanziari che dispongono di illimitate quantità di denaro. George Soros è il nome più noto, ma non l’unico. Altri nomi sono il miliardario “verde” californiano Tom Steyer, che si è vantato di aver investito nelle elezioni di midterm 2018 più di tutti i sostenitori del GOP; o il miliardario Bloomberg, che anche dopo il crollo della sua candidatura alla presidenza elargisce ai Democratici centinaia di milioni di dollari in funzione anti-Trump.

Riguardo agli eccessi dell’immigrazione in America, segnalo due passi avanti compiuti dal governo Trump nei primi tre mesi del 2020. Il primo riguarda la piaga delle città-santuario (cioè rifugio di immigrati illegali e piccoli criminali). Dopo che una Corte d’appello federale ha riconosciuto l’autorità del ministro della Giustizia nel richiedere, alle città che beneficiano di finanziamenti federali, informazioni sui criminali in loro custodia, Trump ha chiesto al ministro di fermare i finanziamenti alle città che non si adeguano, e dunque impediscono all’agenzia federale ICE di deportare gli illegali responsabili di reati. È un passo avanti ancora insidiato, perché ulteriori cause legali porteranno la questione, per una delibera, alla Corte Suprema.

Il secondo dato positivo è che a fine febbraio è finalmente divenuta operativa la regola del “carico pubblico” nel valutare le richieste di cittadinanza da parte di immigrati legali, dando così all’agenzia delegata (Citizenship and Immigration Services) la possibilità di negare le “carte verdi”, che sono il primo passo verso la cittadinanza, a chi fonda il proprio reddito su programmi di welfare non di emergenza. Dunque usufruire della sanità gratuita per gli indigenti (Medicaid) o di altri programmi finalizzati ai poveri, continua a non essere un ostacolo per ottenere la carta verde. Un ostacolo lo sono programmi come i sussidi in denaro ottenuti per un periodo superiore ai 12 mesi. L’obiettivo è che gli immigrati a cui è concessa la residenza legale non siano un “carico pubblico”, cioè possano sostenersi con il lavoro. Da quando fu introdotta dal governo Trump nell’estate 2019, la regola del “carico pubblico” è andata incontro a cause legali da parte degli attivisti dell’immigrazione; ma prima Corti d’appello, poi la Corte Suprema, ne hanno confermato la perfetta legalità. Che l’immigrato non debba essere “un carico” per la società è legge fin dal 1882 ed è un criterio ribadito da una legge del 1996, mai messa in atto. L’indipendenza è un valore centrale della cultura americana, però contestato dagli avvocati dell’immigrazionismo. Un fatto positivo è che il governo Trump, con la regola del “carico pubblico”, rivolga attenzione alle realtà dell’immigrazione legale. Però la regola divenuta operativa nel febbraio 2020 ha troppe deroghe: non si applica né ai rifugiati introdotti nel paese dall’ONU (spesso fonte di gravi dissesti sociali), né a coloro che reclamano l’asilo politico (richiesta paurosamente abusata). Né si applica alle richieste precedenti il 24 febbraio. Inoltre la mancata concessione della carta verde non significa espulsione, bensì soltanto prosecuzione di residenza temporanea (e di benefici dal welfare). Tutto ciò toglie mordente alla regola introdotta. La quale regola, come altre restrizioni, è a rischio di essere travolta dalla pletora di aiuti sociali conseguenti alla pandemia e introdotti con la sfrenata legge di spesa approvata a fine marzo 2020 per la cifra di 2,2 trilioni di dollari.

Se avrà un secondo mandato, in materia di immigrazione Trump deve usare meno moderazione. Quando l’epidemia del virus di Wuhan era in corso da settimane, abbiamo visto il suo governo prendere la decisione, in realtà paurosamente tardiva, di respingere gli immigrati illegali fermati sul confine, e abbiamo visto presentare quella più che necessaria decisione con cautela, in punta di piedi, come nell’avvicinarsi a qualcosa di esplosivo. Ovviamente la guerra interna a cui Trump è andato incontro nel tentativo di cambiare in materia di immigrazione è stata vergognosa e condizionante. E il Congresso ha molto potere sul tema immigrazione. Ma rimane che la pur garantista legge sull’immigrazione (Immigration Act) del 1965 afferma: “Se il presidente stabilisce che l’ingresso nel paese di qualsiasi categoria di stranieri o di immigrati è di detrimento alla nazione, egli può fermarne l’entrata o imporvi le restrizioni che considera adeguate”. 

Se avrà un secondo mandato, Trump dovrebbe affrontare i temi dell’immigrazione con la leadership esercitata davanti all’emergenza sanitaria. Mi riferisco sia alle misure per rallentare l’arrivo del virus in America, sia a quelle per combattere l’epidemia quando essa è dilagata. Si è trattato di una leadership accorta, attenta al dettaglio, ispirata a consuetudini di imprenditore applicate da un uomo che lavora venti ore al giorno. Coloro che in America, e al guinzaglio in Italia, cercano di propagare il contrario, dovrebbero andare incontro a misure disciplinari, se si tratta di giornalisti, o a procedimenti penali, se si tratta di politici. Invece, in materia di immigrazione, nel dopo-pandemia Trump dovrà evitare i ritardi e le carenze che, sia pure sotto il fuoco nemico, hanno rallentato il cambiamento durante il suo primo mandato. Molte cose devono cambiare nel dopo-pandemia. Tra queste, la Cina dovrà pagare un prezzo, almeno in termini di presenza in Cina di imprese occidentali e di affidamento per la produzione di merci essenziali. In Italia dovrebbe pagare chi ha fatto del paese un esempio negativo nel mondo intero, per non aver preso in gennaio e febbraio le misure che potevano ridurre i danni.