Si narra che un mugnaio di Potsdam, stanco delle angherie, della prepotenza e dei soprusi del Re di Prussia, avesse esclamato con ferma convinzione “ci sarà pure un giudice a Berlino!”

Nella democrazia post-moderna e bi-tri-partisan della par condicio, dello spoil system, della trasparenza e della privacy, delle mille tutele e delle pari opportunità di genere sembra che la giustizia venga invocata ad ogni angolo della strada.

Dal condominio ai luoghi di lavoro, dalle relazioni sentimentali alle dispute societarie, dall’etica sociale alle garanzie individuali emerge lo spaccato di un mondo attraversato da beghe, liti, odi, rancori, tensioni, dissidi, contenziosi, delazioni, veleni, rivendicazioni, ricorsi, denunce, querele, esposti, ipotesi di reato.

Tutti sono pervasi da un sacro furore giustizialista, nel lanciare accuse e nel proclamare la propria innocenza: la colpa si sa è sempre di qualcuno ma l’importante è non trovarsi mai dalla parte sbagliata.

C’è molta sincerità in tutto questo fervore ma c’è anche parecchia retorica, soprattutto se si tacitano i turbamenti della propria anima quando si riesce a trovare un capro espiatorio.

Le attenuanti valgono se ci riguardano, altrimenti ci vuole sempre una punizione esemplare.

Questa metafora della “lancia” e dello “scudo”, dell’attacco e della difesa sembra descrivere in modo appropriato un diffuso approccio alle vicende umane.

Parliamo naturalmente di giustizialismo come tendenza sociale pervasiva, non di quella giustizia esercitata nei luoghi istituzionalmente preposti.

Molte questioni che riguardano le nostre quotidiane relazioni potrebbero essere ricomposte senza bisogno di spedire raccomandate o di notificare citazioni.

Eppure gli uffici giudiziari sono soverchiati da un numero di cause crescente, c’è sempre qualcosa da rivendicare ma soprattutto ci preme di tacitare la nostra sete di verità specie se corrisponde alle nostre aspettative.

Abbassando la soglia della nostra tolleranza alziamo e dilatiamo i livelli di contenzioso: non c’è più speranza di ricomporre i dissidi e le diaspore della vita quotidiana in un pacato confronto basato sul buon senso e sulla misura del limite.

Chi ha sbagliato deve pagare: c’è più soddisfazione a veder punito in modo esemplare chi ci ha offeso piuttosto che ad attribuire alle cose la loro proporzionata dimensione.

Una società che pone la sanzione al vertice dei propri bisogni è una società giunta all’anticamera della disperazione.

Ma una società che invoca in continuazione l’autorità e chiede sempre di fare giustizia, che salta le procedure del confronto interlocutorio e le vie della mediazione per rivolgersi direttamente alla magistratura, che ingolfa le aule dei tribunali con diatribe di piccolo cabotaggio perchè vuole criminalizzare e punire piuttosto che redimere, correggere ed emendare è una società fondamentalmente debole, malata ed incapace di gestirsi, cui manca la capacità di dialogare oltre i più facili toni ultimativi né di metabolizzare un progetto condiviso.

Non ci si rende conto che attribuendo una valenza giudiziaria ai contesti anche banali della nostra quotidianità si alimenta la cultura del sospetto e dell’accusa e si sottrae impegno e tempo a chi è preposto ad occuparsi dei reati davvero rilevanti.

Non rende un gran servigio alla giustizia chi fa scempio di giustizialismo: chi cerca vendetta, invocando castighi e pene per tutte le azioni umane, della giustizia diventa anzi il suo carnefice, il suo più cieco giustiziere.