Amico e ammiratore di Carlo Cattaneo, il trentanovenne Pisacane non era un semplice agitatore, tanto meno un soldato votato esclusivamente al perseguimento di obiettivi militari e all’occupazione dei territori che aveva prefissato di liberare. Freddo, razionale, sinceramente laico, secondo “lo spigolatore di Sapri” la prima prerogativa era la diffusione del pensiero democratico in un contesto di legalità costituzionale e dello stato di diritto, elementi dai quali non poteva non prescindere la partecipazione delle masse popolari. Quanto all’uso della forza, ne ipotizzò la possibilità, ma solo laddove la cattiva condizione politico-sociale lo avrebbe richiesto.
Aveva in mente – non essendoci al momento alternativa per le regioni controllate dai borbonici delle Due Sicilie – l’istituzione di un esercito unitario, nazionale, da combinare insieme alla propagazione di nuove istanze, nuove formule dell’esercizio del potere e nuove modalità di amministrazione della cosa pubblica. In fin dei conti era ciò che andava scrivendo da diversi anni, come fece nel volume “Saggi storici-politici-militari sull’Italia”, ultimato nel 1855 e rimasto per 2 anni inedito, chiuso nei cassetti di qualche potente di palazzo il quale aveva deciso che non era ancora il momento di esternare alcuni valori, per così dire, potenzialmente destabilizzanti.
Convinto anti-murattista, individuò nel circondario del Cilento la località ideale per un rivolgimento perché in quelle province si era concentrato uno dei più alti tassi di arresti e deportazioni di patrioti, lasciando presumere che i simpatizzanti per la causa unitaria fossero più numerosi che altrove. Pisacane designò come basista di Napoli Enrico Cosenz, trentasettenne, ex militare borbonico e poi neofita assertore della causa mazziniana, giudicato uno degli uomini più funzionali a disposizione. Con Mazzini – latitante ma presumibilmente attivo nelle zone costiere toscane – la pianificazione della campagna cilentana acquisiva maggior credibilità e un input superiore rispetto alle iniziali aspettative; riguardo all’apostolo del Risorgimento, però, l’incognita era sempre dietro l’angolo : sistematicamente ricercato e perseguito, costretto a spostarsi di continuo, non era affidabile sotto il punto di vista della presenza e del suo contributo in uomini e mezzi.
Fu a inizio giugno 1857 che il progetto di Carlo Pisacane si rivelò insieme a tutte le sue (enormi) ambizioni: non un intervento armato fine a se stesso, bensì un’occupazione al fine di adottare una Costituzione e intervenire – se necessario – con i fucili. La speranza era quella di generare un moto spontaneo, diffuso, coinvolgente. Tra i primi punti statutari, al fine dello svolgimento corretto dalla vita istituzionale, il patriota napoletano antepose la separazione dei poteri tra gli organi dello Stato. Non sempre la storiografia lo ha sottolineato, relegando spesso la sua persona al ruolo di un semplice attivista della rivoluzione devoto all’Italia e caduto per mano della reazione. Di questo stereotipo fu testimone emblematico Luigi Settembrini, già rinchiuso durante il ’48 nel carcere di Santa Maria Apparente di Napoli, il quale sostenne che avrebbe rifiutato – se gli si fosse presentata la possibilità – di essere liberato dal gruppo dei Trecento (in realtà erano Quattrocento) poiché considerava il Pisacane come un agitatore fine a sé stesso. In realtà, egli rappresentava molto di più. Nei suoi appunti, a poche settimane dalla campagna di Sapri, scriveva:
[…] Se le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell’industria, la facilità del commercio, le macchine, per una legge economica e fatale, finché il riparto del prodotto è fatto dalla concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l’accumulano sempre in ristrettissime mani, ed immiseriscono la moltitudine; epperciò questo vantato progresso non è che regresso; e se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che, accrescendo i mali della plebe, la sospingerà a una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d’un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è volto a profitto di pochi […]. L’Italia sarà libera e grande, oppure schiava.
Le rivendicazioni di cui sopra possono essere paragonate alla stregua di un discorso classista, ma bisogna fare attenzione: nel suo programma il Pisacane aveva l’antidoto per impedire anche lo scontro ideologico tra ceti, ed era semplicemente l’adozione di principi e norme in grado di regolare i rapporti, bilanciare i poteri e fare in modo che il nuovo sistema non fosse motivo di smaccata disuguaglianza sociale. Nulla in contrario alla proprietà privata e alla libera concorrenza, con i limiti imposti; favorevole ad un programma di laicizzazione delle istituzioni, certo, ma a patto che il potere non ricadesse nelle mani di un unico soggetto (in questo caso, la corona dei Savoia) a scapito delle prerogative elettive; sostenitore dell’educazione civica e morale delle masse (soprattutto quelle del Sud) poiché da troppo tempo vessate e ridotte ad uno stato di vassallaggio politico per mano degli assolutismi. Possiamo ancora parlare – in modo semplicistico – di un Pisacane unus e coniuratis ? La risposta propende per un secco no.
E’ logico tuttavia che, dato il periodo di conflitti teorici e politici tanto febbrili quanto accesi, Carlo potesse essere considerato come uno dei tanti sediziosi in cerca di fama o propensi unicamente a ribaltare lo status quo con la rivolta armata. Non è facile giudicare. Egli incarnò, se vogliamo, sia il patriota che lo studioso, l’ideatore e il rivoluzionario, ma anche e soprattutto uno dei primi paladini dell’autodeterminazione del popolo italiano, la cui natura e la cui storia aveva scandagliato a fondo per trarne le sue conclusioni. E poco conta se ai posteri egli abbia guadagnato la stima di personaggi del calibro di Mazzini, che lo descrisse come un individuo la «cui la fronte rivelava l’ingegno, gli occhi scintillavano di energia, temperata di dolcezza e d’affetto» oppure l’apprezzamento di emeriti cronisti come Jessie White Mario, la quale lo ritrasse alla stregua di un angelo, ovvero «biondo e dagli occhi azzurri, dolcissimi occhi, ma dallo sguardo mesto e rassegnato errante [in movimento, imperscrutabile] nella spaziosa fronte».
Quel che conta, in relazione alla pianificazione costituzionale e della validità formale-ideologica (non intuite dalla politica e respinte da Cavour) del programma, è che Pisacane e i suoi compagni furono abbattuti come volgari sovversivi salvo accorgersi solo decenni dopo, come hanno fatto stimati patrioti e parte della storiografia contemporanea, del valore dell’idea e del progetto del Pisacane politico. I borbonici e i loro simpatizzanti, addirittura, e furono abili nel farlo, fecero spargere la voce (diffusasi in un batter d’occhio) che i Quattrocento sbarcati a Sapri non erano altri che una masnada di banditi e grassatori giunti nel Sud Italia per distruggere, razziare e violentare le donne cilentane. Fomentando così la popolazione locale, che infierì su quei poveracci anche dopo averli annientati.