Il centro ha bisogno di cultura politica, non può essere un’invenzione di comodo

Colloquio con Guido Bodrato

La sobrietà non va confusa con la negligenza. Guido Bodrato, parlamentare e ministro negli anni ‘80, figura eminente della sinistra democristiana e tenace assertore dell’autonomia del cattolicesimo democratico e popolare, interviene nel dibattito politico a cadenza regolare, ma con un giusto distacco intellettuale. Il suo ragionare conserva la severa essenzialità dei tempi lungamente spesi nelle lotte in prima linea.  Certo, il principio di sobrietà non si traduce, da parte sua, in un’analisi improvvisata. “Mi piace andare all’essenziale – dice – non mi piacciono i giri di parole. Per me il “centro” non è una categoria astratta tra la destra e la sinistra. Queste categorie debbono calarsi nella storia e nelle sue contraddizioni”.

Prodi è intervenuto, a riguardo, riconoscendo la necessità di una nuova formazione politica di centro. Ha parlato di un soggetto liberal moderato. 

Conosco Prodi, lo considero un amico. Quindi conosco il suo modo di pensare. Una volta mi interruppe affermando di non essere “un’anima bella,  essendo in politica per vincere”. Voleva andare oltre la Dc. Ora, nella vecchia Dc rimproveravamo ai dorotei l’inclinazione a stare comunque dalla parte del potere, pensando che il potere logora chi non ce l’ha. Comunque Prodi ha un’idea precisa di Europa e quindi è un interlocutore obbligato.

Secondo te non crede – o almeno non crede fino in fondo – a ciò che pure ha dichiarato?  Prodi non scommette sinceramente sul centro? 

Devo ricordare che fu la lista dell’Asinello alle europee del 1999 a dare il colpo di grazia a quel centro rappresentato dal Ppi, generosa formula di prosecuzione, dopo la caduta della Prima Repubblica, del  cattolicesimo popolare e democratico. Tuttavia non ci sono motivi per irrigidirsi sul dissenso maturato in anni ormai lontani; nei quali, tuttavia, cercavamo di rinnovare la tradizione del “partito di ispirazione cristiana”.

Beh…morì il Partito popolare ma nacque la Margherita. Non fu una risposta, in circostanze sempre più difficili, alla crisi di un partito ridotto al lumicino?

Non mi convinse l’idea di una democrazia caratterizzata dal rapporto diretto del leader con l’opinione pubblica, la polemica implicita con la forma partit. Arturo Parisi, interprete della linea post-referendaria “alla Segni”, era convinto che si trattasse di seguire un elettorato che aveva già scelto il bipolarismo. Io invece pensavo che in quella fase, di svolta storica, una nomenclatura – ovvero ciò che restava della Prima Repubblica –  stava perdendo il radicamento con il suo elettorato, al centro come a sinistra. Di fatto l’esperimento della Margherita non ha retto e dovette riproporsi, con altro indirizzo strategico, sotto il mantello del Partito democratico.

Non ti convince neppure il Partito democratico? 

“Ero assolutamente favorevole all’alleanza con la sinistra, non al “partito unico” (poco più che una scorciatoia). Oggi quell’idea riprende a circolare, ma in una situazione radicalmente cambiata. Non penso si possa semplicemente tornare indietro. Molti pensano – almeno così pare – di affiancare un centro democratico a una sinistra riformista. Da sola, infatti, dove va la sinistra? E dove andrebbe il centro? Nessuna forza politica può ambire in solitudine alla piena difesa dell’europeismo. La situazione è degenerata, basti osservare come sia stata mortificata la lezione degasperiana – sempre più valida – sull’integrazione economica e politica del Vecchio Continente. Giocare sulla semplificazione del messaggio politico, portando il Partito democratico nel campo del socialismo europeo, non ha sciolto i nodi, li ha semplicemente ignorati.

Tuttavia i Popolari europei sono collocati irrimediabilmente a destra. È un problema non da poco.

Tant’è che sono stato tra i propugnatori dell’uscita dei popolari italiani dal Ppe, quando la maggioranza degli europarlamentari Popolari, guidata dai tedeschi, ha scelto di archiviare la propria radice “democratica e cristiana” per far posto ai Conservatori europei e a Forza Italia. E ciò con il solo obiettivo di conquistare la pole position nel parlamento di Strasburgo. Ma l’idea di dare vita, nel 2004, al Partito Democratico Europeo, è stata abbandonata. Poi c’è stata la Brexit e ora è arrivato Orbán, il sovranista ungherese, di cui il Ppe si vorrebbe liberare, poiché in questa nuova fase storica, lo scoglio contro cui l’Unione europea potrebbe naufragare è esattamente il sovranismo, una drammatica regressione al nazionalismo

Sì, ma nel frattempo manca in Italia il partito di radice autenticamente popolare su cui far leva ai fini di questa nuova costruzione politica europea. Da noi, appunto, manca il centro. Che fare?

“Il centro ci sarà o non ci sarà a seconda della ricchezza di contenuto ad esso attribuibile. Senza cultura politica, non prenderà forma alcun centro credibile. De Gasperi ci ha obbligato a riflettere sul “centro che guarda a sinistra”. Lo statista trentino era intransigente nel chiudere il varco a una declinazione in senso conservatore e moderato del cattolicesimo politico. Storicamente, infatti, il centro alleato della destra ha finito ben presto per essere assorbito dalla destra. Ricordo che Jaime Valdés, leader cileno della Dc, diceva: “Se vai con la destra, è la destra che vince”.

E quando il centro guarda a sinistra? Alcuni rovesciano l’accusa, perché contestano la cedevolezza alle forze di sinistra.

Fino a quando è durata l’esperienza del Ppi siamo riusciti a preservare una identità, che tuttavia doveva e deve misurarsi con vari mutamenti radicali. Ralf Dahrendorf invitava a riflettere, sin dagli ultimi anni del ‘900, sul fatto che la globalizzazione avrebbe favorito la competitività a danno della solidarietà, l’autoritarismo a danno della democrazia. Poi è venuta la rivoluzione digitale e tutto è diventato più difficile. E sembra anche riemergere, dalle ceneri del ‘900, la suggestione che sia la violenza la matrice della storia.

La sinistra vuole fare la sinistra. Soffre di solipsismo….

Eppure la sinistra, nei momenti migliori, ha tratto giovamento dal confronto con il cattolicesimo democratico. È la ragione che induce a rinverdire questa attitudine al dialogo, sale della democrazia,  provando a illuminare i molti risvolti positivi di una storia che comincia con i “liberi e forti” di Luigi Sturzo e arriva fino alla “democrazia difficile” di Aldo Moro.

E dunque, come ricominciare? A quali condizioni e per quali sentieri?

Non ci sono scorciatoie. Un polo liberal moderato, così come lo definisce Prodi, non è il nostro destino. La moderazione fa parte dello stile di governo, non segna la figura del cattolicesimo democratico. Dei liberali, infine, abbiamo l’idem sentire di un discorso sulla società, benché l’ispirazione cristiana ci sproni a cogliere sempre l’ansia di giustizia e il vincolo della solidarietà. Si può ricominciare – non lo escludo – a patto però che la fatica di “nuove sintesi” accompagni costantemente il duro lavoro di ricostruzione. Da un piccolo seme spunta e cresce una pianta: questa è la fiducia che ci deve sostenere. In seguito, per trascinamento, verrà anche il tempo dell’organizzazione.