Quando il seme cade in terra e muore, la sua morte suscita in noi diversi sentimenti. Anzitutto il dolore, che diventa orrore ed esecrazione allorché tale morte è frutto dell’odio insano, della follia, della malvagità. Ma con il dolore e l’esecrazione, noi scopriamo la forza della vita e della verità del seme.
E noi oggi siamo qui per unirci a quella vita e verità del seme buono, che è stata l’esistenza del senatore Roberto Ruffilli alla luce della fede, secondo le parole del Salmo: «Mi
indicherai il sentiero della vita /gioia piena alla tua presenza / dolcezza senza fine alla tua destra […]. Io pongo sempre innanzi a me il Signore / sta alla mia destra, non pos-
so vacillare» (Salmo X V, 11.8).
Siamo qui per unirci alla sofferenza di questa morte e alla certezza di questa vita che la fede profonda di Roberto Ruffilli ottiene per la misericordia su di lui di Dio Padre, di
Gesù di cui ha condiviso la fine dolorosa e violenta, dello Spirito Santo che ha abitato la sua anima in grazia del battesimo.
Accanto alla riflessione sulla vita vera, eterna, che è per sempre, non possiamo non essere condotti a ripensare alla grazia temporale e storica che ha preparato e nella quale è maturata la grazia definitiva. Di tale grazia temporale della sua esistenza storica, vorrei richiamare semplicemente il suggerimento che ci viene dalle letture liturgiche: «Abbiamo
pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi» (Rom XII, 6). «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt XXII, 21).
Per esprimere i «doni diversi» secondo la grazia datagli, Ruffilli ha avuto dei luoghi decisivi per la formazione spirituale, umana, culturale, sociale e politica. Come egli stesso ha ricordato: la Chiesa locale, la parrocchia, l’oratorio. Lo scrive nella prefazione al libro di don Franco Zaghini sull’oratorio San Luigi di Forlì — libro alla cui presentazione partecipò la mattina stessa della sua uccisione —: «Quanti, come me, hanno vissuto l’esperienza del San Luigi, a partire dall’ingresso dei salesiani nei primi anni ‘40, trovano nel racconto di don Zaghini motivi per riflettere sul tanto che a noi è stato dato» — doni diversi secondo la misura della grazia data a ciascuno — «oltre che per abbandonarsi all’onda di ricordi splendidi. Senza che faccia velo l’alone della giovinezza ormai trascorsa, dobbiamo riconoscere che noi all’oratorio abbiamo trovato le condizioni per maturare sotto diversi profili, in un clima di grande serenità e di vera disponibilità. In ogni caso sentiamo di aver avuto molto».
Un secondo luogo formativo mediante il quale «doni diversi» sono giunti dall’identica grazia di Dio, è stata certamente questa Università Cattolica del Sacro Cuore.
Ho quindi accettato ben volentieri di partecipare all’Eucaristia in preghiera per lui, in memoria di lui e in ricordo dei doni che attraverso l’Ateneo ha ricevuto. Ruffilli ha voluto
menzionare l’Università Cattolica come l’istituzione che ebbe parte rilevante nella sua educazione e alla quale fu strettamente legato sia per gli studi sia in particolare per l’ambito specifico della sua formazione culturale e spirituale: il Collegio Augustinianum dove visse prima come studente e poi come direttore.
Si può dunque dire che una grande stagione della sua vita culturale e spirituale e dell’impegno scientifico abbia avuto come luogo specifico di maturazione e di espressione questa realtà per la quale tornava spesso e volentieri a Milano nel desiderio di rivedere gli amici legati a lui da una sintonia spirituale profonda.
A Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio Dobbiamo tuttavia riconoscere con gratitudine che tali doni emersi secondo la grazia data da Dio, hanno fruttificato nella grazia della sua vita soprattutto in quella chiarezza al di sopra di ogni sotterfugio politico e umano che risplende nella parola di Gesù: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Un grande senso del primato di Dio, del mistero e della grazia divina, delle certezze di fede; di conseguenza, una genuina ispirazione cristiana, personalista e, venendo alle realtà storiche più concrete, una fedeltà creativa alla Costituzione.
Tale fiducia la espresse in un testo inedito, pubblicato dopo la sua morte: «La nostra
Costituzione ha vinto quando ha posto come fondamentale in una democrazia la ricerca di un equilibrio sempre più valido fra libertà ed eguaglianza, fra diritti e doveri. La grandezza e la modernità della Costituzione sta in questo: nell’aver imposto la ricerca di un equilibrio,
sempre mutevole e da trasportare a livelli sempre più alti fra diritti-doveri ed esigenze diverse».
A me pare che, illuminato dalla fede, Roberto Ruffilli abbia saputo leggere con un realismo biblico la realtà sociale e politica di oggi, con una viva coscienza della conflittualità storica inevitabile tra bene e male, del bisogno di buttarcisi dentro con fame e sete della giustizia e incrollabile speranza. Un realismo alieno sia dalle tentazioni utopiche e ideologiche sia dagli scoraggiameriti del ritiro, dell’esilio spirituale e della paura.
In un saggio del 1982, quasi a modo di introduzione di alcuni scritti di Aldo Moro — e non è senza un doloroso simbolo questo legame fra le due figure, fra la sorte dolorosa a entrambi riservata — egli descriveva la «spiritualità del conflitto» dello statista come: «La disponibilità a misurarsi con la persistenza del male e ad impegnarsi per l’affermazione
del bene, con la consapevolezza dell’impossibilità di conquiste definitive e irreversibili, ma anche della possibilità di una crescita complessiva dell’umanità, secondo il misterioso disegno del Creatore e del Redentore».
Quando, non molti giorni fa, in questa stessa Università, tratteggiavo davanti a un gruppo di giovani il te ma della speranza politica del cristiano, non conoscevo ancora le parole di Ruffilli. Ora posso dire che mi sembrano davvero corrispondenti a quell’immagine di speranza realista, oggettiva, non legata a visioni utopiche e a sogni impossibili, e insieme tale da non arrendersi mai.
E in un altro saggio, dal titolo Religione, politica e diritto in Aldo Moro e pubblicato dalla rivista «del politico», Roberto Ruffilli faceva sue e definiva illuminanti le seguenti frasi
scritte dall’amico in gioventù: «Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta. Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo Stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato.
Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare. Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe… Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino».
Nella speranza che attingiamo alla parola di Dio, noi diciamo che non è soltanto «un grande destino» nel senso diminuito del termine, ma è la grande certezza della croce e della risurrezione di Gesù. «Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia… Beati coloro che sono perseguitati per amore della giustizia», perché la giustizia del Regno, anche attraverso le più tragiche vicende umane, viene e si afferma irresistibilmente. L’omaggio più vero che possiamo rendere alla memoria di Roberto Ruffilli è di continuare questa incrollabile fede e speranza, chiedendogli umilmente e chiedendo a Dio, nella grazia di tale dono, che sia
concesso pure a noi di non tirarci indietro per paura, per viltà, per comodità, per compromesso, di fronte alle esigenze di coraggioso realismo della speranza cristiana. La nostra preghiera per lui si fa allora invocazione per tutti gli uomini e le donne che vorrebbero condividere la speranza, ma che da troppi eventi vengono ricondotti a un pessimismo non realistico e credente, bensì scettico e incredulo; perché sia loro dato
di superare nella forza del dono eroico di sé la tentazione dell’oggi e di camminare uniti nella fede, portati da quella mano del Signore che è sempre alla nostra destra, che non ci permette di vacillare, che ci indica il sentiero della vita, gioia piena nella sua presenza, dolcezza senza fine alla sua destra (cfr. Sal XV).