Il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro: teorie sovraniste e realtà.

Chi critica il divorzio rimpiange i tempi in cui lo stato si finanziava con la tassa da inflazione

Osservatorio CPI 

 

A beneficio di quanti vogliano approfondire le ragioni che portarono nel 1981 al cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia – questione su cui fa perno oggi la polemica attorno al divieto scritto nei Trattati a finanziare direttamente i governi da parte della BCE – segnaliamo questo documento dell’Osservatorio diretto da Carlo Cottarelli (di seguito lo stralcio della presentazione e il link, in fondo, per accedere al testo completo).

Secondo alcune versioni delle teorie sovraniste, il cosiddetto divorzio fra la Banca d’Italia e il Tesoro nel 1981 sarebbe all’origine dei guai dell’Italia perché avrebbe comportato forti aumenti dei tassi d’interesse e la grande crescita del debito pubblico negli anni ottanta. 

In realtà, il divorzio fu, dal punto di vista formale, una piccola riforma, largamente incompiuta; in particolare non tolse ai governi il potere di decidere sui tassi d’interesse e vari canali di finanziamento monetario del deficit rimasero aperti. Tale potere non fu però utilizzato perché nella politica e nella società italiana stava maturando un cambiamento profondo: l’Italia non voleva più essere il paese dell’inflazione e delle continue svalutazioni del cambio, perché ciò era considerato nocivo per la crescita economica e per la coesione sociale. 

Quel cambiamento si era già tradotto nell’adesione, nel 1979, al Sistema Monetario Europeo e poco dopo sarebbe sfociato nel lodo Scotti e nel cosiddetto decreto di San Valentino con cui governo e parti sociali (o alcune di esse) si impegnarono a ridurre rapidamente l’inflazione. 

All’inizio degli anni ottanta, i tassi di interesse nominali e reali aumentarono in tutto il mondo. Se l’Italia si fosse chiamata fuori dal cambiamento, l’inflazione, alimentata dal secondo shock petrolifero, sarebbe ulteriormente aumentata. Il problema che non si riuscì a risolvere allora e che è ancora irrisolto oggi è quello del debito pubblico. 

Quando la società e la politica scelgono di combattere l’inflazione, lo Stato perde il gettito della tassa da inflazione e deve ricorrere ad altre forme di imposizione o a riduzioni della spesa per mantenere in equilibrio i conti pubblici. Ciò fu fatto con successo in tutti i paesi avanzati, ad eccezione dell’Italia. 

Chi critica il divorzio rimpiange i tempi in cui lo stato si finanziava con la tassa da inflazione che alla fine degli anni settanta raggiunse il 12 percento del Pil, il doppio dell’attuale gettito dell’Iva; era una tassa opaca ed iniqua, perché non tutti avevano le cognizioni necessarie per comprenderne gli effetti o per evitarla investendo in attività alternative o all’estero. 

L’anomalia dell’Italia non è il divorzio, ma una politica di bilancio che ancora oggi non è riuscita a fare i conti con la realtà. A chi dice, in ogni caso esagerando, che il divorzio fu un colpo di mano in spregio delle istituzioni democratiche è facile rispondere che nessun parlamento aveva mai autorizzato quell’enorme scippo di risorse ai danni dei risparmiatori che lo Stato attuò negli anni settanta con la tassa da inflazione.

(a cura di Giampaolo Galli – Osservatorio CPI Conti Pubblici Italiani)

Link per accedere al documento dell’Osservatorio CPI