Nel lontano giugno 1983 – in Italia avevano avuto luogo le elezioni politiche per la IX Legislatura – la Liga Veneta, movimento autonomista fondato de jure a Padova da una decina di soci, elesse due parlamentari : Tramarin e Girardi, rispettivamente alla Camera e al Senato. Oggi, autunno 2018, gli eredi di quel movimento all’epoca autodefinitosi secessionista rasenta la soglia del 35% su scala nazionale, è a capo del governo del paese ed è pronto a guidare anche il Campidoglio con un suo candidato (La Bongiorno?). Non è escluso, infatti, data la popolarità e il consenso raggiunti nel Centro e nel Meridione, che alle prossime elezioni comunali di Roma (secondo le stime non così lontane, date le condizioni in cui versa la città e le enormi difficoltà di Raggi, la quale è anche in attesa di giudizio della Magistratura), la capitale possa avere un sindaco leghista. Ma come è potuto accadere che una corrente populista considerata a suo tempo al limite dell’eversione, sia riuscita a conquistare la maggioranza dell’elettorato radicandosi in tutto il territorio? Proviamo ad analizzare le cause principali e i motivi per cui la nostra nazione, a livello di partecipazione diretta, è giunta a questo status de facto.
Fermi restando l’opportunismo e l’abilità mostrata dai pionieri del leghismo, tali Umberto Bossi, Gianfranco Miglio e Francesco Speroni, capaci di federare in nome dell’autodeterminazione fiscale i movimenti autonomisti lombardi, veneti, emiliano-romagnoli e liguri in un unico soggetto (la Lega Nord) che in pochi anni è riuscito a raccogliere il 15% dei consensi nelle aree più sviluppate del paese, il fenomeno del salvinismo non è così complesso da decifrare come sembra. Quella impostata dalla Lega, sin da allora, fu una propaganda fondata sulla dura polemica sul centralismo statale che fece leva su pregiudizi xenofobi e campagne apertamente antimeridionaliste. Sono stati metodi i cui fini hanno sempre avuto un unico comun denominatore: sfruttare il malcontento delle masse per ottenere un’autarchia politico-amministrativa. E’ avvenuto trentacinque anni fa e sta avvenendo in questo 2018, trasponendo i principi legati all’organizzazione federale regionale in una impostazione più squisitamente politica, ma sempre autoreferenziale. Oggi l’obiettivo del suo leader è quello di guadagnarsi l’indipendenza di governo e raggiungere, servendosi di questa o quell’altra “stampella” (che sia Meloni o ciò che resta di FI), una maggioranza impositiva anti-statalista. Non importa come e perché.
L’antica convergenza di interessi circoscritta all’ambito locale e caratterizzata da una concezione ristretta delle aspettative in contrapposizione agli interessi generali del paese, è riconducibile, attualmente, alla volontà di anteporre con intransigenza la propria autorità sia in politica che nei rapporti sociali. Gli aggettivi “sovranismo “ o “nazionalismo” associati al binomio Lega-5Stelle possono avere un senso, ma solo per tutto ciò che riguarda le relazioni con l’Unione Europea e il problema dell’immigrazione. Da oltre tre decenni a questa parte, l’isolamento vissuto dal partito del nord col resto del paese ha spinto prima Bossi e poi Salvini ad avvicinarsi al centro-destra di Berlusconi, riuscendo a raggiungere, negli anni Duemila, quasi il 10% dei voti. Aiutato certo dagli apparentamenti e dal proporzionale, ma pur sempre entrando a far parte nella maggioranza di governo. Non è bastata nemmeno l’inchiesta giudiziaria del 2012 a bloccare il fenomeno leghista: ribadendo i vecchi principi federalisti, ha anzi reagito scalando la presidenza di alcune importanti regioni come Lombardia, Veneto e Piemonte. Ciò ha rappresentato il preludio all’exploit del recente passato.
Anche alle ultime elezioni del marzo 2018 i leghisti hanno dovuto, per forza di cose, formare un’alleanza di governo; ne è uscita fuori una miscela anomala la quale rappresenta il misto tra populismo, prevaricazione e lotta di classe. Ma è un ibrido che rischia di svuotare le casse dello Stato, di mettere in pericolo i risparmi dei cittadini e alimentare odio. Come tappare i buchi del deficit accumulato con i partners europei? Come giustificare, di fatto, una manovra operata da un paese già fortemente indebitato con la creazione di ulteriore debito? Del resto, non c’è cosa peggiore che ingannare la popolazione prospettando il raggiungimento della stabilità economica mediante l’anticipo dei pensionamenti, il reddito di cittadinanza, il blocco delle frontiere e i condoni di berlusconiana memoria.