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lunedì, 1 Settembre, 2025
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Il K2, la macchia e il riscatto di Bonatti

La storica performace in solitaria al pilastro del Dru nasce nel tristo episodio che resterà la macchia della vittoriosa spedizione italiana al K2: una macchia che lacererà a lungo l'alpinismo italiano e non solo.

Sulla vicenda Bonatti-K2 si sono affastellate nei decenni migliaia di pagine, quasi tutte disponibili sul web. Qui diremo solo il nocciolo della diatriba, quello che ormai è incontrovertibilmente acccertato.

In sostanza, per invidia, paura e malignità Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, i due destinati a raggiungere la cima, non esitano a compiere la mascalzonata di ingannare Bonatti e l’hunza Mahdi riguardo il punto di ritrovo, ad 8.150 metri, per la consegna delle bombole d’ossigeno, su basti di circa 19 chili l’uno, portate su dai due per consentire poi la salita fino in vetta dei due ampezzani.

Arrivati il 30 Luglio al punto concordato, il campo 9 con una tendina, Bonatti e Mahdi scoprono che non c’è nessun campo 9 e nessuna tenda, neanche Compagnoni e Lacedelli ci sono: avevano deciso di non farsi trovare, preoccupati del rischio di dover condividere poi l’ultimo tratto e quindi l’onore della conquista con il giovanissimo bergamasco, il più in forma di tutto il gruppo, e il pachistano. Da un imprecisato punto più in alto, fuori da ogni accordo, gridano a Bonatti di lasciare lì le bombole e di scendere. Ma il tempo è inclemente, è buio, e Bonatti fa appena in tempo a scavare una buca nella neve gelata per poter sopravvivere alla notte all’addiaccio. Fa 40 sottozero. Mahdi per congelamento perderà le dita dei piedi.

I membri della spedizione avevano firmato di astenersi da qualsiasi commento a posteriori, e così quindi fa Bonatti.

 

Bonatti denuncia tutti ma poi deve aspettare cinquant’anni per vedersi riconosciuta la sua versione dei fatti

Nel 1964 il giornalista Nino Giglio de La Gazzetta del Popolo, sostenendo la versione ufficiale dell’autoritario e narcisista Ardito Desio, scrive che tutto è nato perché Bonatti voleva soffiare il primato a Compagnoni e Lacedelli. e peeciò aveva barato sulle bombole. Bonatti lo querela per diffamazione e vince su tutta la linea.

Ma è difficile smentire i potentati di cui l’immarcescibile Desio dispone. Peraltro Compagnoni e Lacedelli rappresentano un simbolo dell’Italia vincente e nessuno si azzarda a contestarli. Il Cai tace e spera che glissando si plachi la buriana. Nel frattempo vengono fuori fotografie che smentiscono tecnicamente Desio e i due di vetta. Il Cai si rende conto che la questione è diventata istituzionale e merita una disamina istituzionale una volta per tutte. La Commissione tecnica del 2004 consegna il responso: le cose erano andate come da sempre sostenuto da Bonatti e la versione ufficiale ha raccontato falsità (e proprio sul momento clou, l’arrivo in cima). Lo stesso Lino Lacedelli in un libro di memorie uscito proprio nel 2004 (morirà nel 2009) spiega le cose come le ricostruiva Bonatti, distaccandosi da Compagnoni.

Il Petit Dru chiama Bonatti, la montagna è una sfida spirituale

Ma l’alpinista bergamasco conosceva il suo valore. Stretto tra l’impegno al silenzio e la messinscena subita al K2, libera tutta la compressione scegliendo la sud ovest del Pehit Dru per riscattarsi e dare uno schiaffo agli accomodamenti delle relazioni ufficiali.

Un anno dopo il K2 Bonatti sceglie una solitaria impossibile di sei giorni per dire al mondo dell’alpinismo chi è lui, K2 o non K2. Inventa un alpinismo estremo – il fisico glielo permetteva -, che poi ispirerà Reinhold Messner (“Walter Bonatti – Il fratello che non sapevo di avere”, Mondadori, 2013) e di cui l’altoatesino diverrà l’antesignano, riconoscendo a Bonatti di essergli stato ispiratore maestro.

La montagna di Bonatti non ha nazionalità: ‘essa è”. Non dipende da come la si racconta ma dalla verità su chi si è, che nasce solo dal rapporto personale con lei.

 

La risorsa della disperazione. Si spera solo dopo

La dimostrazione di forza di Bonatti (‘da solo valgo questo’, ‘non ho bisogno di consenso, il dissenso è il mio mantra’) ad un certo punto sta per fallire. Arriva in una zona dove sembra evidente che non sia più possibile proseguire. Ne deve prendere drammaticamente atto. Senza poter più né salire né scendere Bonatti sente la seduzione di lasciarsi andare e chiudere tutto lì per sempre.

Di-sperare non è una stupidaggine. L’apologia mielosa della speranza non fa capire nulla della posta in gioco e della sfida.

Sapendo che si può morire non buttandosi di sotto ma invece facendosi ‘buttare di sotto’ dall’aver osato l’impossibile, Bonatti trasforma la paura in una reazione estrema, si accorge che c’è più in là una parte frastagliata di parete, dove forse la salita potrebbe riprendere. Ma, appunto, è da un’altra parte. Come arrivarci? Sfilaccia la cima della corda che gli rimane, forma dei nodi e vi lega zeppe e chiodi. Poi la lancia verso quegli spuntoni. Ma la corda ricade giù sempre. Dopo molti lanci questa volta la corda s’incastra.

Ma… terrà? Come è rimasta bloccata? Come fa a saperlo? Terrà se ci attacchi un’ottantina di chili?

Ma quella corta apparentemente fissata è l’unica, ultima, possibilità di andare di là e uscirne vivo. Sperare è questo, credere che l’impossibile sia parte della realtà.

Bonatti si attacca alla corda e si lancia nel vuoto, lo attraversa e atterra dall’altra parte: la corda ha tenuto. E lui andrà in vetta dell’impossibile Petit Dru.

 

Non ci sarà più il Dru

2005: il Petit Dru non c’è più.

A Giugno l’ultimo permafrost che per migliaia di anni era stato la colla delle fenditure di vetta si scioglie e due frane lo distruggono del tutto. Nessuno potrà più scalarlo. Rimarrà per sempre il pilastro Bonatti.

Fu il suo giuramento, e suo rimane.

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