Dalle beghe nostrane a quelle esportate, ai conflitti bellici, al fanatismo religioso, ai retaggi storici che riaffiorano mai rimossi, all’involuzione delle democrazie a alle tirannie consolidate o emergenti il mondo che ci appare ogni mattina non è il viatico ai nostri mali e alimenta le insicurezze nel presente, le incognite del futuro, in due parole la malattia di vivere. Ma soprattutto dimostra come la coscienza individuale e collettiva non regga alle lusinghe del potere e degli interessi: non esiste una vera consapevolezza di cosa sia il bene comune, egoismo, rancore, odio, vendette prendono il sopravvento e tacitano la speranza che qualcosa prima o poi cambi davvero. Ci sono mali endemici planetari: la fame, la disperazione, la soccombenza dei deboli e indifesi, le ingiustizie sociali, la virulenza dei forti e ci sono le angosce interiori, le paure, le labilità, le fatiche e le insicurezze.
Il mondo brucia e si consuma, la sostenibilità ambientale scricchiola, il sonno della ragione confida che sarà l’intelligenza artificiale a imprimere accelerazione al volano della crescita e del benessere: ma se viene a mancare la coscienza morale tutto il castello di congetture frana miseramente e sarà sepolto dalle illusioni. Osservando ciò che accade da decenni nel nostro Paese possiamo al massimo constatare la ciclicità di problemi irrisolti, una deriva trasversale ad ogni schieramento politico che si è avvicendato dal dopoguerra ad oggi: non un percorso in salita, verso la stabilità ma un declino lento, inesorabile e ingovernabile. Il Risorgimento e la Resistenza – per chi assume la Storia a maestra di vita – hanno impartito lezioni cariche di tensioni ideali e morali: nel mezzo e a posteriori, oggi, possiamo al massimo rubricare i fastidi e le cadute di tono, le insoddisfazioni e le discontinuità di un percorso che ci ostiniamo a chiamare “progresso”: ne trattano spiegando ragioni profonde e impliciti malcelati gli annuali Rapporti Censis, che vengono ridotti ad una sorta di cahiers de doléances, senza che alcuno ne tragga utili insegnamenti. Ascoltando gli echi delle diatribe tra politica e magistratura che ci giungono, veri o distorti che siano, si è come presi del fastidio della loro ricorrente inconcludenza.
Montesquieu ne rimarrebbe inorridito, fatte le debite proporzioni tra la sua intuizione sulla tripartizione dei poteri come fondamento della struttura dello Stato e passaggio dirimente verso la “modernità” e le inconciliabili lotte di primazia del presente. Per come è proposta la querelle ci viene chiesto di schierarci e la polarizzazione tra destra e sinistra in entrambi i contesti ha qualcosa di violento, spregevole e profano. Che cosa resta delle lezioni sul “lavoro intellettuale come professione” pubblicate nel 1919 da un illuminato e colto Max Weber, dove mai troviamo oggi la più pallida rappresentazione del suo “beruf” inteso come sapienza, talento, competenza, mestiere, vocazione? Credo ben poco e se davvero dobbiamo aderire al gioco della polarizzazione forzata, troviamo distorsioni e giochi di parole, bizantinismi interpretativi paralizzanti, lotte di primazia e abbordaggi alla nave degli avversari.
Perché mai politica e giustizia dovrebbero perennemente confliggere? Solo spiegando che alla radice del contendere c’è una cancrena di potere che rappresenta – questa volta sì, nel suo perpetuarsi – il male assoluto. Ad un livello così elevato e ricco di sofismi l’uomo comune, il cittadino, l’immaginario collettivo non arrivano a formarsi un’opinione se non parteggiando: ed è un ‘partem capere’ che annebbia le menti e disgrega lo Stato e le sue istituzioni. In un editoriale del 2013 Antonio Polito descriveva tre derive che ritrovo intatte ed attuali: la corruzione dilagante, la politica declinante e la giustizia debordante. Qualcuno dovrebbe metter ordine, non se ne può uscire con la retorica di Stato: la vita è altrove, dove vive, studia e lavora la gente comune. A dieci anni dal suo primo mandato solo il Presidente Mattarella, che è giudice e politico nell’accezione più ampia dei due termini, spiega e si fa capire da tutti.
“Something is rotten in the state of Denmark” [“C’è del marcio in Danimarca”], scriveva William Shakespeare nell’Amleto. Forse c’è del marcio ovunque, anche in Italia.